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giovedì 26 maggio 2011

Libertà di coscienza o libertà delle coscienze?

L’espressione sopra ricordata, talora utilizzata dal fondatore dell’Opus Dei (cfr. Solco, 389), vuole manifestare che il nostro giudizio di coscienza, se certamente possiede una relazione con la nostra libertà, ne possiede però anche una con la verità delle cose. Giungere a una concezione equilibrata del rapporto tra queste due dimensioni è difficile: in questo incontro tenteremo di dare qualche elemento, speriamo utile. 

Il quadro generale della situazione viene ben presentato dai nn. 55-59 del documento della Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009: “Per giungere a una giusta valutazione delle cose da fare, il soggetto morale dev’essere dotato di un certo numero di disposizioni interiori che gli consentano di essere aperto alle richieste della legge naturale e insieme ben informato sui dati della situazione concreta. Nel contesto del pluralismo, che è il nostro, siamo sempre più consapevoli del fatto che non si può elaborare una morale fondata sulla legge naturale senza unirvi una riflessione sulle disposizioni interiori o virtù…del soggetto impegnato personalmente nell’azione e che deve formulare un giudizio di coscienza. Perciò non è strano che oggi si assista alla rinascita di una «morale delle virtù» ispirata alla tradizione aristotelica. Insistendo così sulle qualità morali richieste per una riflessione morale adeguata, si comprende il ruolo importante che le diverse culture attribuiscono alla figura del saggio. Egli gode di una particolare capacità di discernimento nella misura in cui possiede le disposizioni morali interiori che gli consentono di formulare un giudizio etico adeguato. Un discernimento di questo tipo deve caratterizzare il moralista quando si sforza di concretizzare i precetti della legge naturale, come pure ogni soggetto autonomo incaricato di fornire un giudizio di coscienza e di formulare  la norma immediata e concreta della sua azione.

La morale non può dunque limitarsi a produrre norme. Deve anche favorire la formazione del soggetto, affinché questo, impegnato nell’azione, sia in grado di adattare i precetti universali della legge naturale alle condizioni concrete dell’esistenza nei diversi contesti culturali. Tale capacità è assicurata dalle virtù morali, in particolare dalla prudenza che integra la singolarità per guidare l’azione concreta. L’uomo prudente deve possedere non soltanto la conoscenza dell’universale ma anche quella del particolare. Per indicare bene il carattere proprio di questa virtù, san Tommaso d’Aquino non esita a dire: «Se non ha che una sola delle due conoscenze, è preferibile che questa sia la conoscenza delle realtà particolari che riguardano più da vicino l’operare». Con la prudenza si tratta di penetrare una contingenza che è sempre misteriosa per la ragione, di modellarsi sulla realtà nel modo più esatto possibile, di assimilare la molteplicità delle circostanze, di registrare il più fedelmente possibile una situazione originale e indescrivibile. Un tale obiettivo richiede diverse operazioni e abilità che la prudenza deve attuare.
Tuttavia l’individuo non deve perdersi nel concreto e nell’individuale, come è stato rimproverato all’«etica della situazione». Deve scoprire la «retta regola dell’agire» e stabilire un’adeguata norma di azione. Questa retta regola deriva da princìpi preliminari. Si pensa qui ai princìpi primi della ragione pratica, ma spetta anche alle virtù morali aprire e rendere connaturali la volontà e l’affettività sensibile ai diversi beni umani, e così indicare all’uomo prudente quali fini deve perseguire nel flusso del quotidiano. A questo punto l’individuo sarà in grado di formulare la norma concreta che si impone e di conferire all’azione data un raggio di giustizia, di forza o di temperanza. Si può parlare qui dell’esercizio di una «intelligenza emozionale»: le potenze razionali, senza perdere la loro specificità, si esercitano all’interno del campo affettivo, così che la totalità della persona è impegnata nell’azione morale.
La prudenza è indispensabile al soggetto morale a motivo della flessibilità richiesta dall’adattamento dei princìpi morali universali alle diverse situazioni. Ma tale flessibilità non autorizza a vedere nella prudenza una sorta di facile compromesso nei confronti dei valori morali. Al contrario, proprio attraverso le decisioni della prudenza si esprimono per un soggetto le esigenze concrete della verità morale. La prudenza è un passaggio necessario per l’obbligo morale autentico.
C’è qui una prospettiva che, all’interno di una società pluralista come la nostra, riveste un’importanza che non si può sottostimare senza subirne notevoli danni. Infatti essa nasce dal fatto che la scienza morale non può fornire al soggetto agente una norma che si applichi adeguatamente e quasi automaticamente alla situazione concreta; soltanto la coscienza del soggetto, il giudizio della sua ragione pratica, può formulare la norma immediata dell’azione. Ma al tempo stesso essa non abbandona mai la coscienza alla sola soggettività: si apre alla verità morale in modo tale che il suo giudizio sia adeguato. La legge naturale non può dunque essere presentata come un insieme già costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione”.



Cerchiamo di seguire passo passo questa argomentazione. Senz’altro, occorre segnalare che le azioni umane hanno sempre un carattere concreto, particolare. La scelta segue all’intenzione e, perfezionata dalla prudenza, decide di fare una cosa precisa. Per emettere un giudizio su tale azione, abbiamo innanzitutto a disposizione la scienza morale, la quale, come abbiamo visto, comprende principi e conclusioni, le quali possono essere immediate o mediate (remote). Tutto tale contenuto si mantiene comunque a livello universale (legge naturale).
Chiamiamo coscienza il giudizio che l’uomo emette riguardo all’azione particolare, a partire dalla scienza morale (che costituisce una sorta di premessa maggiore del ragionamento, mentre la premessa minore è la valutazione della natura dell’azione). Il giudizio della coscienza è la conclusione di questo ragionamento, anche se occorre ricordare che tale processo non è proprio semplicemente deduttivo, data la grande ricchezza di particolari che deve includere, ma si chiama piuttosto applicazione: “Il giudizio della coscienza è un giudizio pratico…che applica a una situazione concreta la convinzione razionale che si deve amare e fare il bene ed evitare il male…Mentre la legge naturale mette in luce le esigenze oggettive e universali del bene morale, la coscienza è l’applicazione della legge al caso particolare…Il carattere universale della legge e dell’obbligazione non è cancellato, ma piuttosto riconosciuto, quando la ragione ne determina le applicazioni nell’attualità concreta” (Veritatis Splendor, n. 59).


Questo termine, applicazione, vuole evitare:

-sia che al giudizio di coscienza venga attribuito un carattere creativo, decisionale (come se non avesse una norma universale con la quale confrontarsi): “In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti a esaltare la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori…Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male…All’affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l’affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza” (Veritatis Splendor, n. 32). “Volendo mettere in risalto il carattere creativo della coscienza, alcuni autori chiamano i suoi atti, non più con il nome di giudizi, ma con quello di decisioni” (Ibid., n. 55). Va anche detto che questa situazione, che può sembrare solo limitante, ha anche il pregio che la coscienza non è mai costretta a “inventarsi” del tutto il bene da fare in una determinata circostanza: la norma universale della legge morale fa giungere la sua luce fino alle azioni particolari, pertanto nessuna azione umana è del tutto indecifrabile.

-sia che esso venga inteso come una mera deduzione quasi meccanica che fa calare tale e quale la norma universale sulla situazione particolare: “Questa universalità non prescinde dalla singolarità degli esseri umani, né si oppone all’unicità e irripetibilità di ciascuna persona: al contrario, essa abbraccia in radice ciascuno dei suoi atti liberi, che devono attestare l’universalità del vero bene” (Ibid., n. 51). Questa realtà ha il suo riscontro nel carattere quasi sempre negativo delle norma universali della legge naturale, che in questo modo lasciano uno spazio aperto alla libertà dell’agire umano: “Il fatto che solo i comandamenti negativi obbligano sempre e in ogni circostanza…ha il seguente motivo: il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo non ha nella sua dinamica positiva nessun limite superiore, bensì ha un limite inferiore, scendendo sotto il quale si viola il comandamento. Infatti, ciò che si deve fare in una determinata situazione dipende dalle circostanze, che non si possono tutte quante prevedere in anticipo…Nel caso dei precetti morali positivi, la prudenza ha sempre il compito di verificarne la pertinenza in una determinata situazione, per esempio tenendo conto di altri doveri forse più importanti o urgenti” (Ibid., nn. 52 e 67).


In senso proprio, quindi, la coscienza è un atto, un giudizio, operato dall’intelligenza nel suo versante pratico. Non si tratta in nessun modo di una sorta di altra facoltà che si aggiunge a intelligenza e volontà. Anche se in senso improprio si usa talvolta questo termine per indicare la capacità umana di conoscenza morale.

Il giudizio di scelta (perfezionato dalla prudenza) e il giudizio di coscienza hanno quindi lo stesso oggetto, particolare, è si svolgono “in parallelo”: il giudizio di coscienza è solo conoscitivo, razionale, mentre quello di scelta è anche affettivo, cioè nel formularlo entrano in gioco anche le componenti emotive della persona; molto luminoso è il seguente passo, tratto dal De Veritate di san Tommaso (q. 17, a. 1, ad. 4): “Il giudizio della coscienza e quello del libero arbitrio si differenziano perché mentre il primo consiste in una pura conoscenza, il secondo si realizza nell’applicazione della conoscenza all’affetto, e per questo si chiama giudizio di scelta. Così avviene talvolta che il giudizio del libero arbitrio si perverta, mentre ciò non capita al giudizio della coscienza…, come quando il desiderio di un’azione disonesta obnubila la ragione tanto da impedirle di deciderne il rifiuto. Così taluno sbaglia nello scegliere, ma non nella coscienza, dato che agisce proprio contro la propria coscienza”. Questo spiega quindi perché i due giudizi possano differire. Spetta alla prudenza far sì che il giudizio di scelta recepisca il giudizio della coscienza.


La struttura sopra descritta delinea una parte del compito di formazione della coscienza: salvaguardare la sua indipendenza, proteggendola da eventuali condizionamenti da parte di un giudizio di scelta non sufficientemente virtuoso, che cercasse di tirarla dalla propria parte. Di fondamentale importanza è mantenere, anche quando si sbaglia, la lucidità di ammettere l’errore (Forgia, 164)

D’altra parte, la coscienza può anche sbagliare da sola, cioè errando nell’interpretare la legge morale, oppure nel decifrare la natura dell’azione. Tale ignoranza può anche essere incolpevole, ma anche in questo caso emerge per un altro aspetto la necessità di formazione della coscienza: “Il male commesso a causa di una ignoranza invincibile, o di un errore di giudizio non colpevole, può non essere imputabile alla persona che lo compie: ma anche in tal caso esso non cessa di essere una male, un idosrdine in relazione alla verità sul bene. Inoltre, il bene non riconosciuto non contribuisce alla crescita morale della persona che lo compie : esso non la perfeziona e non giova a disporla al bene supremo” (Veritatis Splendor, n. 63).


Riportiamo, a conclusione, alcune semplici classificazioni. Il giudizio di coscienza, oltre che in antecedente o conseguente (in relazione all’atto che giudica), può essere così classificato:

A)
In relazione alla conformità oggettiva con il bene, si può dare coscienza vera (retta) o falsa (erronea), e questa seconda può esserlo vincibilmente o invincibilmente.
B)
Il relazione allo stato di sicurezza soggettiva con cui il giudizio è emesso, la coscienza può essere certa, probabile o dubbiosa.


Poste queste distinzioni, si possono formulare alcuni principi di base per la corretta formulazione dei giudizi di coscienza:

-regola morale idonea per se è la coscienza certa e vera, infatti il bene diviene obbligante passando attraverso la ragione;

-per accidens, è regola morale anche la coscienza certa e invincibilmente erronea, poiché da un punto di vista soggettivo equivale alla precedente (vedi peraltro precisazione sopra riportata dal n. 63 della Veritatis  Splendor);

-la coscienza vincibilmente erronea (che raramente è certa) non consente di agire, bensì richiede di adoperare degli strumenti per uscire dall’errore. Chi agisse in questo stato si esporrebbe deliberatamente al rischio di sbagliare;

-non in tutte le situazioni è richiesto lo stesso grado di certezza. In talune materie, meno importanti, basta la coscienza probabile; in altre, si esige una coscienza certa.

-la coscienza dubbiosa vera e propria (con sospensione del giudizio) esige di trovare un modo per approdare almeno a una coscienza probabile, altrimenti si agirebbe in maniera irrazionale.