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mercoledì 27 aprile 2011

La scoperta della legge morale: dove e come

A)

Abbiamo compreso che, data la struttura della persona umana e le caratteristiche del suo agire, il fine prossimo, immanente alla persona e più immediato, che la persona ha, è l’instaurazione dentro di sé del governo della ragione, nel rispetto anche della giusta autonomia della dimensione affettiva, ovvero in altre parole il radicamento delle virtù.

Rimane da risolvere il problema del riferimento oggettivo in base al quale si può dire che la ragione, con il suo governo, sta conducendo l’uomo verso il suo vero bene. Questo è senz’altro un compito della ragione umana: per l’unità della persona, non può che essere la facoltà che presenta l’oggetto alla volontà quella deputata a misurarne la moralità (cfr. Veritatis splendor, nn. 36 e 44). La ragione non è solo il veicolo attraverso il quale riconosciamo i valori morali, ma è ciò che li costituisce formalmente come tali (la dottrina classica e della Chiesa non ammette l’innatismo di matrice platonico-cartesiana). Dal punto di vista teologico, la legge naturale è la partecipazione nell’essere razionale del progetto di Dio. Ciò non toglie che l’unico nostro strumento per conoscerla è la nostra ragione (cfr. nota 19 al n. 12 della Veritatis Splendor e vedi anche Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1955: “Questa legge è chiamata naturale non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della natura umana”):

Naturalmente, questa ragione alla quale spetta tale delicato e cruciale compito, non è una ragione “qualsiasi” –altrimenti sarebbe difficile evitare il relativismo-, ma quella ragione che S. Tommaso, seguendo fin qui Aristotele, chiama la recta ratio, ovvero la ragione dell’uomo saggio. Tuttavia, limitarsi a questo lascia in una sorta di circolo vizioso, perché ne viene fuori che la ragione che edifica le virtù è la ragione della persona già virtuosa.

Aristotele tenta di uscire dal circolo virtuoso a livello pratico, ovvero riconoscendo che attraverso l’influsso educativo amicale l’uomo può giungere a un livello minimale di bontà tale che poi la sua ragione sia in grado di farlo diventare ancora più buono, ovvero ammettendo che non si può diventare del tutto buoni da soli.

San Tommaso cerca di uscire dal circolo vizioso anche a livello teorico e definisce la recta ratio in vari modi:
-la ragione illuminata dai primi principi dell’ordine morale, colti dalla sinderesi in modo naturale (livello più alto della legge naturale, come vedremo sotto).
-la ragione che agisce secondo il proprio statuto interno, senza subire interferenze o pressioni (per es., da parte delle passioni).

“L’obbligo morale che il soggetto riconosce non proviene dunque da una legge che gli sarebbe esteriore (pura eteronomia), ma si afferma a partire da lui stesso…Il termine ‘legge’ qui non rinvia né alle leggi scientifiche, che si limitano a descrivere le costanti di fatto del mondo fisico e sociale, né a un imperativo imposto arbitrariamente dall’esterno al soggetto morale. La legge designa qui un orientamento della ragione pratica che indica al soggetto morale quale tipo di agire sia conforme al dinamismo innato e necessario del suo essere che tende alla sua piena realizzazione. Questa legge è normativa in virtù di un’esigenza interna dello spirito…Non si tratta quindi di sottomettersi alla legge di un altro, ma di accogliere la legge del proprio essere” (Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009, n. 43).

B)

Il punto cruciale rimane quindi quello di esplicitare meglio qual’è il riferimento oggettivo in base al quale la ragione umana può stabilire cosa è bene e cosa è male. Procediamo per gradi. Innanzitutto, si può dire che l’uomo tende verso una vita buona, intendendo con questa espressione una vita che comporta la realizzazione piena delle potenzialità della natura umana.

Possiamo chiamare questo fine felicità, intendendo però che essa includa la piena realizzazione delle inclinazioni della natura, nel rispetto della loro gerarchia, anzi fondamentalmente consista in ciò: essa possiede quindi sia un certo carattere doveroso, sia un certo carattere oggettivo, ed è quindi al riparo delle critiche di Kant (consistenti nel ritenere che la felicità non possa essere il degno fine dell’uomo, perché nozione troppo soggettiva ed edonistica). Parliamo di felicità intendendola come lo stato che consegue al raggiungimento di tutti i beni che la ragione percepisce come proporzionati alla natura umana: in questo senso, che si definisce inclusivo (non esclude aprioristicamente alcuni beni a preferenza di altri, sebbene li colga nella loro gerarchia di importanza) e formale (questi fini sono colti come beni dalla ragione), riteniamo che tale fine sia necessariamente voluto da ogni uomo, nella misura in cui egli esercita nell’azione la sua intelligenza e la sua volontà.

Non sempre usiamo la parola felicità in questo senso: per esempio, nella frase “Tizio ha sacrificato la sua felicità per assistere una persona malata”, la parola felicità ha un significato parziale, si riferisce ad alcuni beni. Se la si intendesse nel senso inclusivo e formale sopra descritto, allora si dovrebbe dire che proprio per essere felice la persona ha rinunciato a talune possibilità per compiere un certo dovere. Non si tratta quindi di una felicità edonista, per cui la sua ricerca non solo non osta all’agire moralmente bene, ma praticamente coincide con esso. Il motivo per cui a noi può capitare di ritenere che sia una contraddizione parlare di felicità doverosa, è che il termine dovere ha due significati, dei quali però nel linguaggio comune si conosce e si pratica solo uno, quello cioè di “obbligo che ha la sua origine in un rapporto giuridico esteriore”. In questo senso, non è possibile che la felicità diventi un dovere. Ma dovere significa anche: “bene da perseguire perché è degno dell’uomo”. Allora, felicità doverosa significa non felicità a cui si è obbligati da una legge, ma felicità che, a motivo del bene oggettivo che essa è, è degna di essere perseguita liberamente da un uomo. E’ possibile quindi abbozzare dei criteri per definire una vera e una falsa felicità per l’uomo. Certamente solo il soggetto può dire se si sente felice; ma esiste anche la questione dell’essere felice. Infatti, la felicità è anche in funzione dell’importanza che ognuno attribuisce ai diversi fini raggiungibili, ma tale importanza è valutabile almeno in parte oggettivamente, con un giudizio vero o errato.

[Per aiutare a comprendere meglio questa distinzione, un autore ha proposto di pensare a un’ipotetica “macchina delle esperienze”, congegnata in modo tale da poter provocare, mediante stimolazione del cervello, in un soggetto che non fa nulla, tutte le esperienze che egli desideri. La domanda è: è desiderabile una vita simile, fatta tutta di esperienze alle quali non corrisponde alcuna realtà? Una vita, cioè, di soddisfazioni, ma non di attività? Quali sono la ragioni per cui chiunque risponderebbe che una simile esistenza non è degna di essere desiderata da un uomo? Si potrebbe dire che questo caso limite ci aiuta a cogliere che della felicità fanno parte l’agire personalmente in qualche modo e l’essere aderenti alla realtà. Questi elementi sono la base per un  giudizio intorno a se un certo sentirsi felice corrisponde o meno a un esserlo davvero (come una persona umana lo può essere)].


Arriviamo quindi alla fine a determinare che il riferimento oggettivo della felicità, che è quello nel quale la ragione retta legge i fondamentali principi morali, è costituito dalle inclinazioni che la natura umana mostra, e che segnalano quali sono i beni per l’uomo. Moralmente buono sarà ciò che va nella linea di favorire il raggiungimento di tali beni, male sarà ciò che va in direzione diversa. In altre parole, qual’é il riferimento oggettivo che misura la rettitudine della ragione? Ovvero, dove essa legge il vero bene dell’uomo? La risposta della filosofia classica è che essa li trova nelle inclinazioni della natura. Esse sono quelle tendenze che la natura umana possiede, verso il proprio perfezionamento, verso il colmare le lacune del proprio essere, verso il far passare all’atto le proprie potenzialità. Vedi il testo di Benedetto XVI riportato in fondo.

Una precisazione importante –già accennata sopra- riguarda il fatto che qui ci serviamo del concetto di natura, inteso non in senso fisico (natura come parte biologica, contrapposta a spirito e a libertà), ma in senso metafisico (natura come essenza di un ente, origine delle sue azioni e delle sue caratteristiche specifiche) e universale (ciò che compete alla struttura di un ente, anche se può non darsi in casi particolari). Cfr. Veritatis splendor, nn 47-50. Sono utili le seguenti considerazioni: “E’ anzitutto essenziale sviluppare un’idea non concorrenziale dell’articolazione tra la causalità divina e la libera attività del soggetto umano. Il soggetto umano realizza se stesso inserendosi liberamente nell’azione provvidenziale di Dio e non opponendosi ad essa…La libertà suppone che la volontà umana sia ‘messa sotto tensione’ dal desiderio naturale del bene e del fine ultimo. Il libero arbitrio si esercita allora nella scelta degli oggetti finiti che consentono di raggiungere tale fine…Una filosofia della natura che prenda atto della profondità intelligibile del mondo sensibile e, soprattutto, una metafisica della creazione consentono poi di superare la tentazione dualistica e gnostica di abbandonare la natura all’insignificanza morale…Tuttavia la riabilitazione della natura e della corporeità in etica non può equivalere a un qualunque ‘fisicismo’. Infatti alcune presentazioni moderne della legge naturale…, trascurando di considerare l’unità della persona umana, assolutizzano le inclinazioni naturali delle diverse ‘parti’ della natura umana, accostandole senza gerarchizzarle e tralasciando di integrarle nell’unità del progetto globale del soggetto. Ora, spiega Giovanni Paolo II, ‘le inclinazioni naturali non acquistano una qualità morale, se non in quanto si rapportano alla persona umana e alla sua realizzazione autentica’” (Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009, nn. 77-79).

[Tenendo conto del fatto che la metafisica da parte sua giunge alla dimostrazione che Dio è il Fine Ultimo di ogni creatura, cioè Colui che attira a sé ogni cosa, si conclude facilmente –tenendo conto anche di ciò che diremo tra poco- che tale fine ultimo, guardato da un punto di vista globale, è l’unione con Dio che l’uomo realizza attraverso la sua parte spirituale. Infatti, l’instaurazione del governo della ragione nella persona rende possibile che l’uomo proceda verso la realizzazione delle inclinazioni della sua natura e ciò facendo attinga il fine ultimo oggettivo, che la metafisica ci mostra essere Dio: “homo Deo coniungitur ratione, sive mente, in qua est Dei imago” (S. Th., I-II. Q. 100, a. 2)].


C)

Ora, occorre affrontare il compito della determinazione della legge naturale, cioè descrivere sinteticamente l’insieme dei fondamentali principi morali ai quali la nostra ragione giunge lavorando sulle inclinazioni che ritrova nella natura di cui fa parte. Tale studio (del quale qui si dà solo uno schema) getterà anche una luce utile sul percorso fatto finora. Relativamente all’attività della recta ratio nella determinazione della legge naturale, considereremo alcuni aspetti metodologici (C 1) e gli aspetti contenutistici (C 2).



C 1)

 

L’attività della recta ratio si svolge a due livelli:
-quello intellettuale dei principi, che vengono “intuiti”, “visti”, indotti
-quello discorsivo, dei ragionamenti con il quali viene elaborata la scienza morale
(ricordiamo che, per poter poi arrivare al giudizio sulle singole azioni, occorre anche un terzo livello, quello a cui si situano la coscienza e la prudenza).

Al primo livello, la recta ratio coglie il primo principio della ragione pratica (il bene è da fare, il male è da evitare, ovvero ci sono cose da fare e cose da evitare, che chiamiamo bene e male), e inoltre i beni costituiti dal contenuto generico delle virtù.

A partire da questi principi, essa va poi scoprendo (e questo è il secondo livello) le esigenze concrete delle singole virtù, avendo come riferimento la vita e la natura dell’uomo. Si costruisce così la scienza morale, che è ancora universale, anche se più vicina ai casi particolari reali. Vengono formulate delle norme, che non possono esprimere tutta la ricchezza dell’agire positivo secondo virtù. Soprattutto, esse enunciano quei comportamenti che, in ogni caso, non sono da mettere in atto perché ledono una virtù (occorre osservare che la formulazione prevalentemente negativa dei Comandamenti esprime proprio questo fatto). Ricordiamo che determinante per stabilire se una certa norma appartiene alla legge naturale è la connessione necessaria con i primi principi o le virtù, e non il fatto che sia immediatamente o facilmente conoscibile. Di qui, il fatto che possa essere necessario educare alla conoscenza della legge naturale.

“A partire da queste inclinazioni si possono formulare i precetti primi della legge naturale, conosciuti naturalmente. Tali precetti sono molto generali, ma formano come un primo substrato che è alla base di tutta la riflessione ulteriore sul bene da praticare e sul male da evitare. Per uscire da questa generalità e chiarire le scelte concrete da fare, bisogna ricorrere alla ragione discorsiva, che determina quali sono i beni morali concreti in grado di realizzare la persona e l’umanità, e formula precetti più concreti capaci di guidare il suo agire. Il questa nuova tappa la conoscenza del bene morale procede per ragionamento. Esso all’origine è molto semplice: gli è sufficiente una limitata esperienza di vita e si mantiene all’interno delle possibilità intellettuali di ciascuno. Si parla qui dei ‘precetti secondi’ della legge naturale, scoperti grazie a una più o meno lunga considerazione della ragione pratica, per contrasto con i precetti generali fondamentali che la ragione coglie spontaneamente e che sono chiamati ‘precetti primi’” (Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009, nn. 46-47).

Riguardo al problema dell’esistenza di norme morali assolute e immutabili, esse possono esistere e sono quelle che riguardano le componenti necessarie del bonum rationis (cfr. Veritatis Splendor, nn. 79-80). Il quesito rimanda a se si possa sostenere che esiste una natura umana immutabile nel tempo e nello spazio, anche in questo caso ammettendo che accanto a un nucleo stabile esistano variazioni possibili, culturali o d’altro tipo. La domanda può porsi anche nella forma di stabilire se la libertà umana abbia potere illimitato di attribuire significati agli atti naturali, o se tale potere, che senz’altro possiede, trovi invece un limite: la nostra risposta è la seconda, che si basa sulla constatazione che la corporeità e tutti gli elementi naturali non fanno parte dell’avere della persona (il che li renderebbe totalmente disponibili alla libertà), bensì invece del suo essere. Naturalmente, questa risposta è facilitata da una visione creazionista della realtà, per cui la natura ha dei significati oggettivi corrispondenti al progetto del Creatore.


D’altro canto, è evidente che nella comune percezione delle persone, nei luoghi e nei tempi diversi, ci sono oscillazioni in alcuni aspetti della legge naturale. Non tutto, nella natura umana e nella sua percezione da parte dell’uomo è proprio fisso. Ciò è certamente vero, anche se occorre ricordare che dire che un precetto è di legge naturale non equivale a dire che sia conoscibile con facilità da chiunque e in ogni temperie culturale (cioè, questo problema si intreccia con quello della conoscibilità). D’altra parte, proprio il fatto che noi sperimentiamo il cambiamento di alcune cose (accidentali) di ciò che in alcuni tempi è percepito come facente parte della natura umana e quindi della legge naturale, mostra che cogliamo al tempo stesso alcuni aspetti invece fissi, un soggetto permanente, altrimenti il cambiamento stesso non sarebbe intelligibile.

Quindi, in qualche caso può essere difficile determinare se un certo cambiamento ha la sua origine in un oscuramento della ragione umana, che rende più difficile percepire un punto che peraltro rimane di legge naturale ed è quindi immutabile, o se invece quel cambiamento è accettabile perché ha la sua causa in una variazione culturale che non tocca il nucleo della legge naturale. Allo stesso modo, in biologia può essere difficile talvolta capire se un ente è un vivente o un non-vivente, ma ciò non infirma la chiarezza della distinzione tra vita e non vita.

“Il moralista (questa è la difficoltà del suo lavoro) deve ricorrere alle risorse combinate della teologia, della filosofia, come pure delle scienze umane, economiche e biologiche per riconoscere bene i dati della situazione e identificare correttamente le esigenze concrete della dignità umana. Al tempo stesso, egli deve essere particolarmente attento a salvaguardare i dati di base espressi con i precetti della legge naturale che rimangono al di là delle variazioni culturali” (Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009, n. 54).


C 2)

Lo schema, molto sintetico, del processo di scoperta del contenuto della legge naturale è espresso da San Tommaso in S. Th., I-II, q. 94, a. 2, citato alla nota 93 della Veritatis Splendor. Tale schema procede studiando le componenti della persona umana “dal basso verso l’alto”, cioè passando dalla vita vegetativa a quella sensibile a quella razionale. Bisogna naturalmente tenere conto del fatto che la vita razionale “sovrastante” influisce sulle altre due dimensioni, ovvero la lettura delle inclinazioni umane viene fatta tenendo conto delle dignità della dignità della persona umana, che va sempre affermata. L’esemplificazione di San Tommasova ben intesa perché, presa alla lettera, potrebbe indurre a conclusioni errate e, oltre tutto, contrarie allo spirito dell’antropologia e dell’etica tomista. L’uomo, infatti, è chiamato ad attestare la sua spiritualità anche nelle azioni più banali. Non è che l’uomo debba conservarsi come qualsiasi altro ente, riprodursi come qualsiasi animale e, in più, speculare sulla verità. Un uomo deve conservarsi da uomo, per esempio, accettando di alimentarsi solo al minimo della sussistenza in un tempo di carestia, poiché il suo essere uomo gli esige di pensare anche al bene comune; oppure, può dover rischiare la vita per portare un soccorso necessario a un malato contagioso; d’altra parte, il libero e consapevole sacrificio per il prossimo può avere un valore religioso superiore alla speculazione intorno a Dio. In sintesi, il conseguimento dei valori spirituali non si attua solo nella contemplazione, ma è la “forma” di ogni valore autenticamente umano.

Accenniamo ora ad alcuni temi importanti della legge naturale.



C 2 1)

Il trattamento da riservare alla vita umana alla luce dell’inclinazione di ogni ente alla conservazione nell’essere e del valore supremo della persona umana. Assumiamo come punto fermo il fatto che l’uomo è un’unità di spirito e di corpo, e che quindi non c’è intervento sulla dimensione fisica che non coinvolga, più o meno, la persona. Si può ritenere che la vita fisica sia la condizione necessaria, il “luogo” dello sviluppo della persona. E’ quindi un bene primario (non supremo, perché ci sono valori personali per i quali è legittimo, o anche doveroso, esporsi al pericolo di danneggiarla o perderla).

Si dà quindi un primo grande principio: la vita umana innocente (cioè che non sta attualmente aggredendo beni personali altrui importanti) è inviolabile in modo diretto e volontario. La ragione profonda di ciò è che, così facendo, si interromperebbe lo sviluppo della vita dello spirito (immortale). Si pongono pertanto alcune problematiche specifiche:
-la legittima difesa e la pena di morte: si affrontano come casi di azioni a doppio effetto, dotate di un effetto indiretto cattivo. La vita che viene offesa manca del requisito dell’innocenza (sottolineatura importante riguardo alla proporzionalità della reazione, che rende oggi in linea di massima improponibile la pena di morte);
-riguardo all’aborto diretto, occorre evidenziare che la proibizione assoluta di esso vale indipendentemente dall’esito del dibattito intorno al momento dell’infusione dell’anima. L’aborto può essere terapeutico (finalizzato alla salute della madre) o eugenetico (finalizzato alla qualità della vita del bambino): il secondo ha una gravità particolare, derivante dal fatto che include il giudizio da parte della società sulla qualità della vita di un'altra persona. Questioni particolari riguardanti l’aborto sono quella relativa alla colpa morale personale dei vari protagonisti, e quella concernente il rapporto tra aborto e contraccezione;
-l’eutanasia include anch’essa un giudizio sulla qualità di una vita vivibile: è su questo punto che occorre agire, sia teoricamente che praticamente;
-vanno accomunate sotto l’unica voce di forme di dominio eccessivo sulla vita umana situazioni morali quali l’accanimento terapeutico, la fecondazione artificiale, la sperimentazione su persone umane.

Esistono poi delle problematiche relative al livello non della vita/morte, ma della salute/malattia. Importante è al riguardo la comprensione della terminologia, che porta oggi a parlare di mezzi proporzionati o sproporzionati, più che di mezzi ordinari o straordinari. Il principio più generale a cui rifarsi è quello di totalità. Esso afferma che il bene del tutto giustifica il sacrificio della parte, dove per tutto si può intendere il corpo intero nei confronti di un suo membro, oppure la persona intera nei confronti della sua parte organica. Applicazioni di questo principio riguardano gli interventi chirurgici (una certa attenzione merita oggi il caso degli interventi di chirurgia plastica, estetica o ricostruttiva), le terapie farmacologiche includenti psico-farmaci, analgesici, cure palliative, le problematiche dei trapianti, soprattutto da vivente.

Va chiarito che in nessun modo il principio di totalità si può applicare intendendo la persona parte rispetto al tutto che sarebbe la società.

Una problematica relativa a questo settore è quella della tossicodipendenza, leggera o pesante.

Come già detto sopra, una conseguenza del fatto che il bene della vita va cercato dall’uomo in modo umano, è quella che può essere opportuno o doveroso sacrificare un bene personale fisico, anche la stessa vita, per un valore personale spirituale, particolarmente alto.


C 2 2)

Riguardo alla maniera conforme al livello della persona umana di vivere la dimensione sessuale, si richiede che nell’esercizio della dimensione sessuale venga messa in gioco l’intera persona, cioè che i soggetti che si mettono in comunicazione attraverso questa dimensione sia le due persone, nella loro interezza. Affinché ciò si dia, nessuna componente importante della persona può essere deliberatamente e direttamente esclusa da questo tipo di relazione. Da questo principio derivano i tre principali requisiti del rapporto uomo-donna, quando esso si svolge in maniera conforme alla natura umana:
a)      l’esclusività della relazione (su questo punto, per es., è deficitaria tra l’altro la fecondazione artificiale eterologa);
b)      La definitività della relazione (cioè, la dimensione del futuro non riservata o aperta ad altre possibilità);
c)      l’apertura (quanto a volontà diretta) alla procreazione (la persona propria offerta e quella altrui accettata nella loro integrità).

La realtà sopradescritta, quando si realizza, dà luogo a un vero matrimonio (per chi è battezzato si aggiunge la necessità della forma canonica sacramentale). Qualora mancasse, già dall’inizio, in maniera netta anche solo uno dei tre elementi, il patto tra l’uomo e la donna non configura un vero matrimonio. La realtà che si instaura quando i coniugi, per motivi validi, restringono l’esercizio della vita coniugale ai soli periodi nei quali la donna non può concepire (metodi naturali) è profondamente diversa dal punto di vista antropologico rispetto all’uso della contraccezione, e fa parte dell’uso intelligente (cioè conforma alla natura umana) che l’uomo è chiamato a esercitare nei confronti dei meccanismi della natura, rispettandoli. E’ alla luce di questi requisiti, auspicabili per il matrimonio, che occorre partire per comprendere le modalità adeguate di vivere la relazione pre-matrimoniale.

Così come nel caso dell’inclinazione alla conservazione della vita, anche per ciò che riguarda l’esercizio della sessualità, beni spirituali di grande valore giustificano la rinunzia ad esso, senza che ne derivi una menomazione della persona.

L’omosessualità praticata non rispetta il requisito dell’apertura alla vita, ma più in generale ancora si può mettere in discussione il fatto che in questo tipo di relazione avvenga, a livello oggettivo, un’autentica comunicazione tra le due persone, perché essa finisce per assumere soprattutto l’aspetto della somma di due individualismi. Di fatto, è raro che una relazione omosessuale rispetti anche i primi due requisiti. Naturalmente, l’aspetto soggettivo delle persone coinvolte merita un’adeguata considerazione.


C 2 3)

Le norme di legge naturale che derivano dalla razionalità dell’uomo (le inclinazioni specificamente umane), possono così riassumersi:
-L’inclinazione alla ricerca della verità comporta il compito di cercare la verità, e il conseguente diritto a immunità da coercizione nella ricerca della verità (la libertà religiosa). Esiste anche il dovere di tentare di far uscire dall’ignoranza che vi si trova (cfr. Veritatis Splendor, n. 63), con gradualità e ragionevolezza. La menzogna è una delle più gravi forme di violenza, poiché altera la capacità decisionale della persona (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2486). Questioni relative a libertà di stampa, diritto di informazione, doveri di tutelare la buona fama, ricerca del consenso informato in medicina, problema riguardante le Dichiarazioni anticipate di trattamento in relazione con la vita e la morte, ecc.
-Lo studio dell’inclinazione dell’uomo alla vita in società porta a mettere in luce la priorità della famiglia come cellula della società. Il dovere-diritto dello stato di non equiparare del tutto la famiglia naturale ad altre forme di aggregazione tra persone (Familiaris consortio, n. 43). Lo sviluppo della Dottrina sociale della Chiesa conduce a mettere a fuoco il diritto alla proprietà privata, il principio di sussidiarietà e il principio di solidarietà. Le vaste applicazioni della Dottrina sociale della Chiesa meritano uno studio a parte



Dal Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace 2008, nn. 11-13
11. Una famiglia vive in pace se tutti i suoi componenti si assoggettano ad una norma comune: è questa ad impedire l'individualismo egoistico e a legare insieme i singoli, favorendone la coesistenza armoniosa e l'operosità finalizzata. Il criterio, in sé ovvio, vale anche per le comunità più ampie: da quelle locali, a quelle nazionali, fino alla stessa comunità internazionale. Per avere la pace c'è bisogno di una legge comune, che aiuti la libertà ad essere veramente se stessa, anziché cieco arbitrio, e che protegga il debole dal sopruso del più forte. Nella famiglia dei popoli si verificano molti comportamenti arbitrari, sia all'interno dei singoli Stati sia nelle relazioni degli Stati tra loro. Non mancano poi tante situazioni in cui il debole deve piegare la testa davanti non alle esigenze della giustizia, ma alla nuda forza di chi ha più mezzi di lui. Occorre ribadirlo: la forza va sempre disciplinata dalla legge e ciò deve avvenire anche nei rapporti tra Stati sovrani.
12. Sulla natura e la funzione della legge la Chiesa si è pronunciata molte volte: la norma giuridica che regola i rapporti delle persone tra loro, disciplinando i comportamenti esterni e prevedendo anche sanzioni per i trasgressori, ha come criterio la norma morale basata sulla natura delle cose. La ragione umana, peraltro, è capace di discernerla, almeno nelle sue esigenze fondamentali, risalendo così alla Ragione creatrice di Dio che sta all'origine di tutte le cose. Questa norma morale deve regolare le scelte delle coscienze e guidare tutti i comportamenti degli esseri umani. Esistono norme giuridiche per i rapporti tra le Nazioni che formano la famiglia umana? E se esistono, sono esse operanti? La risposta è: sì, le norme esistono, ma per far sì che siano davvero operanti bisogna risalire alla norma morale naturale come base della norma giuridica, altrimenti questa resta in balia di fragili e provvisori consensi.
13. La conoscenza della norma morale naturale non è preclusa all'uomo che rientra in se stesso e, ponendosi di fronte al proprio destino, si interroga circa la logica interna delle più profonde inclinazioni presenti nel suo essere. Pur con perplessità e incertezze, egli può giungere a scoprire, almeno nelle sue linee essenziali, questa legge morale comune che, al di là delle differenze culturali, permette agli esseri umani di capirsi tra loro circa gli aspetti più importanti del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto. È indispensabile risalire a questa legge fondamentale impegnando in questa ricerca le nostre migliori energie intellettuali, senza lasciarci scoraggiare da equivoci e fraintendimenti. Di fatto, valori radicati nella legge naturale sono presenti, anche se in forma frammentata e non sempre coerente, negli accordi internazionali, nelle forme di autorità universalmente riconosciute, nei principi del diritto umanitario recepito nelle legislazioni dei singoli Stati o negli statuti degli Organismi internazionali. L'umanità non è « senza legge ». È tuttavia urgente proseguire nel dialogo su questi temi, favorendo il convergere anche delle legislazioni dei singoli Stati verso il riconoscimento dei diritti umani fondamentali. La crescita della cultura giuridica nel mondo dipende, tra l'altro, dall'impegno di sostanziare sempre le norme internazionali di contenuto profondamente umano, così da evitare il loro ridursi a procedure facilmente aggirabili per motivi egoistici o ideologici

sabato 16 aprile 2011

Il percorso verso la meta: lo sviluppo delle virtù

Descrizione dell’azione volontaria


Nel processo di crescita morale di un cristiano interviene in maniera determinante la grazia di Dio –come abbiamo visto nella lezione scorsa-, però il suo agire non stravolge il processo umano di sviluppo delle virtù, bensì passa attraverso di esso, per cui ha senso studiare tale processo dal punto di vista dei suoi “meccanismi” antropologici, ovvero di quelli di crescita della persona, anche quella  nella quale non opera la grazia di Dio. Pur con i limiti che ha, ovviamente, ogni tentativo di “vivisezionare” l’agire umano, cercheremo di seguire prevalentemente l’ordine con il quale la persona giunge a scoprire e a praticare la legge morale.

Partiamo da un’osservazione ovvia ma interessante: la possibilità e la necessità di una valutazione morale dell’agire umano nascono quando in esso noi riscontriamo il requisito della volontarietà, o libertà. Infatti, è perché e quando sono libero che sono in grado di spiegare la ragione per cui agisco in un certo modo, e questa ragione –esplicitabile oggettivamente- può essere valutata. Ciò mette in evidenza un primo punto importantissimo: la moralità di una azione non proviene, almeno in prima battuta, dalla relazione estrinseca con una norma (una sorta di etichetta appiccicata dal di fuori), bensì è una qualità intrinsecamente posseduta dall’agire umano, una conseguenza della libertà che connota la stragrande maggioranza delle azioni umane. Questo punto è oggi di estrema importanza, dal momento che la società attuale tende a sostituire la carenza di responsabilità morale di molte persone mediante un accumulo di norme assai precise, le quali però non sono in grado di creare la moralità dal di fuori, bensì al massimo di registrarla.

Nella lezione scorsa abbiamo colto la frase di Benedetto XVI: “Questo è essenziale: l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Questa amicizia influenza la vita”. Oggi ci dedichiamo a studiare il percorso lungo il quale avviene questo influsso, o comunque ogni uomo va facendosi più buono mediante il suo stesso agire. Solo più avanti affronteremo l’argomento della scoperta della legge morale e della sua funzione: seguiamo questo ordine perché così è nella natura delle cose.

L’agire volontario è quello che procede da un principio intrinseco all’uomo e inoltre è accompagnato da una conoscenza formale del fine (cioè, il soggetto conosce ciò in vista di cui agisce, e tale conoscenza è la motivazione per cui agisce). Si tratta, quindi, non solo di azioni spontanee, ma anche di azioni coscienti, che includono nella loro struttura un giudizio. La volontà è un “tendere giudicando” (espressione di Giovanni Paolo II).

N. B. Va tenuto presente che volontario si chiama sia l’atto umano nel suo complesso, sia quelle fasi di esso che spettano direttamente alla volontà anziché all’intelligenza.

Studiando l’agire volontario, Aristotele e S. Tommaso hanno evidenziato che:
-esso è sempre intenzionale: ciò vuol dire che ha sempre un oggetto esterno. L’oggetto intenzionale dell’azione può anche non coincidere del tutto con il termine fisico dell’azione.
-ogni atto della volontà, oltre che intenzionale, è anche autoreferenziale, cioè include una decisione su se stessi. La persona viene coinvolta in ogni atto della volontà. Non è così, invece, per un atto solo conoscitivo. Il possesso intenzionale volitivo, cioè, non è mai neutro.

N. B. E’ importante non confondere l’aggettivo intenzionale con il sostantivo intenzione: l’intenzione, come vedremo è solo uno degli atti intenzionali dell’uomo.
Ogni atto volontario quindi ha un oggetto, che è, come per ogni facoltà umana, il principio di attuazione della volontà. Nel caso della volontà, tale principio di attuazione è il bene: ogni realtà nella quale l’intelligenza scorge una concretizzazione del bene, può divenire oggetto della volontà. Ogni atto della volontà si dirige verso un oggetto presentatole dall’intelligenza (il cui movimento quindi la precede sempre). Qui, per ora, prendiamo la nozione di bene nella sua accezione di realtà relativa al desiderio umano, più avanti si tratterà di stabilire se esiste un criterio per valutare la rettitudine dei desideri dell’uomo. 

Mettendo a fuoco con più precisione la struttura dell’agire dell’uomo, occorre evidenziare quell’aspetto caratteristico che gli antichi esprimevano con l’assioma secondo il quale “ciò che è primo nell’intenzione è l’ultimo nell’esecuzione”, cioè il fatto che ogni azione umana, se ben osservata, si rivela essere la scelta di qualcosa di immediato in vista di un fine da realizzare più avanti. Infatti, la struttura di ogni azione volontaria è rappresentabile secondo questo schema di base (gli atti dispari sono immediatamente dell’intelligenza, quelli pari della volontà):

A) Livello della ricerca del fine: 1) Conoscenza del fine   2) Desiderio del fine   3) Valutazione sull’opportunità di tentare di raggiungerlo  4) Formulazione dell’intenzione

B) Livello della scelta dei mezzi: 5) Rassegna dei mezzi possibili  6) Adesione generica a tali mezzi 7) Determinazione del mezzo più idoneo (ultimo giudizio pratico)  8) Scelta operativa di metterlo in pratica

C) Livello dell’esecuzione (atti imperati da intelligenza e volontà sulle facoltà operative)

Questa constatazione apre a due ordini di considerazioni: il primo è costituito dalla questione riguardante l’esistenza o meno di un fine ultimo, ovvero la risposta alla domanda: esiste un orizzonte ampio, nel quale necessariamente ogni libertà umana è collocata, tale che ogni scelta pratica è sempre il tentativo di concretizzarlo qui e ora per me?  Il secondo si può formulare così: il fatto che l’agire umano possieda questo caratteristico procedere “dal lontano verso il vicino” evidenzia già un’esigenza di moralità interna?



L’esistenza del fine ultimo

La filosofia classica riconosce che quel meccanismo di passaggio da una scelta concreta adesso a un fine da raggiungere dopo (sul piano reale, mentre su quello mentale avviene il contrario), il quale fine, una volta raggiunto, diviene mezzo per un fine ulteriore, ecc., è messo e mantenuto in moto da un obiettivo finale generalissimo che ogni uomo si propone necessariamente, e che concreta poi liberamente (es.: io studio oggi, perché ho intenzione di fare un esame, perché ho intenzione di laurearmi, perché ho intenzione di fare quel lavoro, perché penso che contribuirà alla mia realizzazione, perché…). Si giunge cioè necessariamente a porsi la domanda: esiste un fine ultimo, generalissimo, del quale tutti gli altri sono tentativi di concretizzazione? Dal punto di vista della teoria dell’azione umana, si coglie che esso deve esistere, e che non è un bene concreto che noi ci proponiamo, ma un termine che necessariamente fa da sfondo a ogni nostro atto, al quale ogni nostro atto offre un contenuto concreto. S. Tommaso lo chiama in vari modi: bonum in commune, finis ultimus, beatitudo, rationem appetibilitatis absolute… Senza ammettere questa realtà diverrebbe impossibile spiegare il muoversi dell’agire umano.


Il meccanismo logico per cogliere ciò è simile a quello che si attua per dimostrare l’esistenza di Dio nelle cinque vie di S. Tommaso. Infatti, se la volontà umana fosse indifferente nei confronti degli oggetti che ha davanti a sé, non si potrebbe spiegare come mai il soggetto si decide ad agire, se non “a caso”, mentre un originario interesse per un bene molto generale, la vita buona, è il presupposto perché il soggetto trovi una ragione per agire. Tale interesse o desiderio non è quindi una scelta, ma il presupposto che rende possibile qualsiasi scelta. La vita buona, felice, riuscita, non è una delle tante cose che l’uomo vuole, ma la ragione per la quale vuole tutto ciò che vuole. Tra l’altro, se non ci fosse una motivazione di fondo unica, non avrebbe senso parlare del governo della propria vita, perché l’esistenza sarebbe spezzata in segmenti sconnessi: ogni azione sarebbe isolata dalle altre, e l’uomo non potrebbe sperimentare un senso per la propria vita.



Esigenze di moralità interne all’agire umano


Il secondo ordine di considerazioni va alla ricerca del punto (o dei punti) in cui emerge l’esigenza della valutazione morale dell’agire, e li individua nell’intenzione (è in base soprattutto ad essa che si può definire buono o cattivo un uomo), e nella scelta (o intenzione realizzata), la quale aggiunge elementi di moralità all’intenzione solo progettata (in base a essa l’azione va definita buona o cattiva). Di qui il fatto che nella Veritatis Splendor, al n. 67, si condanni la teoria dell’opzione fondamentale, che ammette una troppo ampia divaricazione tra intenzione e scelta. Normalmente, viceversa, la scelta fatta è indicativa della reale intenzione.

Come si vede, gli atti decisivi per la moralità sono di tipo interno. Tuttavia, gli atti esterni che ne conseguono possono aggiungere altri aspetti caratteristici, alcuni di notevole interesse morale: la possibilità di effetti indiretti, la possibilità di finalizzazioni intenzionali diverse da quelle strutturali, la cooperazione con altre persone, l’esemplarità.

Ci si può rendere conto del fatto che attraverso il proprio agire volontario l’uomo modella se stesso e, nella misura in cui il suo comportamento è diretto dalla ragione, va instaurando dentro di sé il governo della ragione: questo è il bene immanente che costituisce il fine prossimo dell’agire umano. S. Agostino chiama tale bene ordo amoris, e S. Tommaso bonum rationis.

N. B. Affermare la necessità del governo della ragione non vuol dire che occorre che il principio unico di ogni azione si trovi nella ragione, bensì che ogni altro tipo di motivazione –per es. quella dei sentimenti- è bene che passi anche attraverso la ragione.

Aristotele fa notare che l’uomo virtuoso e quello vizioso ragionano, in materia etica, secondo un sillogismo perfetto: voglio essere temperante – bere ora questo bicchiere di vino sarebbe intemperanza – quindi non lo prendo (poniamo che il soggetto debba poi fare un lungo viaggio guidando). Oppure: tutto ciò che fa piacere non va mai rifiutato – questo bicchiere di vino mi fa piacere – quindi lo bevo.

Viceversa, l’uomo che si trova a un livello di virtù intermedio, pur avendo la premessa maggiore del virtuoso, alterna ora l’una ora l’altra premessa minore, e quindi trae ora l’una ora l’altra conclusione.





L’instaurazione e il ruolo delle virtù

Quanto sopra si può anche dire affermando che il fine prossimo dell’agire umano è l’instaurazione nella persona delle virtù, ciascuna delle quali corrisponde all’instaurazione del governo della ragione in una “regione” della persona umana. Le virtù, quindi, sono:
-mezzi che fanno l’uomo più buono
-a propria volta beni, o fini intermedi, dell’agire umano, la considerazione dei quali ci avvicina alla scoperta di precisi criteri di moralità (è buono quel comportamento che mi fa essere o diventare virtuoso).

Esse sono abiti operativi buoni, cioè qualità stabili che predispongono l’uomo ad agire bene. Stanno, per così dire, in mezzo tra una facoltà e la sua azione, e favoriscono il fatto che l’azione sia conforme al bene della persona. Dove c’è razionalità (e quindi universalità ovvero apertura a più di una possibilità) c’è “spazio” per la virtù. Le facoltà sensibili dell’uomo possono essere perfezionate dalla virtù, nella misura in cui partecipano alla razionalità.

Ricordando che ogni azione si struttura secondo il livello dell’intenzione e quello della scelta (oltre a quello dell’esecuzione), si può comprendere che ogni virtù possiede:
-un aspetto intenzionale, che orienta l’intenzione del soggetto verso fini adeguati e opportuni
-un aspetto elettivo, che perfeziona la scelta concreta, facilitando il fatto che sia coerente con l’intenzione.
Per esempio, un uomo ama la giustizia, cioè vede come un bene per sé essere giusto, e se lo propone; poi, riesce a scoprire cosa vuol dire essere giusto in una certa situazione, e a farlo.

Data questa struttura, si può capire come le virtù cardinali sono tutte relazionate tra loro, e che lo snodo di tale relazione è costituito dalla virtù della prudenza. Infatti, la dimensione intenzionale di giustizia, fortezza e temperanza (cioè, i buoni desideri) segnala alla dimensione intenzionale della prudenza i fini che si deve proporre (la prudenza punta a realizzare quei desideri). La dimensione intenzionale della prudenza si prolunga nella dimensione elettiva della stessa prudenza, che quindi suggerisce una scelta concreta e la propone alla dimensione elettiva di giustizia, fortezza e temperanza, le quali si adeguano con facilità a questa indicazione. Questa giusta misura indicata dalla prudenza è il “giusto mezzo” in cui consiste la virtù. Il giusto mezzo è la misura indicata dalla ragione, che non è per forza la media matematica tra gli estremi, né una misura astratta, ma una misura in rapporto al soggetto.

Il meccanismo sopra descritto rende ragione di un fatto di esperienza, e cioè che non si può dare una virtù in stato perfetto, se non ci sono anche tutte le altre almeno in un certo grado, e che d’altra parte la crescita in una virtù comporta almeno una certa crescita delle altre. Inoltre, esso consente di superare due posizioni entrambe non accettabili:
-quella che riduce ogni virtù a prudenza, per cui sostiene che basta sapere cosa è bene per farlo, e che il peccatore è un ignorante (è l’intellettualismo etico di Socrate)
-quella secondo la quale le virtù sono pura volontà: basta che io voglia fare il bene e con ciò già  riesco a capire quale è e a farlo.

Con quanto sopra, ci siamo avvicinati alla comprensione della moralità dell’agire umano, tuttavia rimane da indagare un aspetto decisivo, ovvero quello cioè del criterio di valutazione della bontà dei fini che l’uomo di propone.

Fede e opere

E’ più importante praticare la fede in Dio o comportarsi bene? (tema trattato fondamentalmente a partire da tre catechesi di Benedetto XVI)
Volendo considerare alcuni temi di fondo della teologia morale, è innanzitutto importante cercare di chiarire qual’è il rapporto corretto tra la dimensione dell’esercizio della fede e quella del comportamento pratico. In questo ambito, possono darsi due tendenze “estreme”, quella che sostiene che l’importante è comportarsi bene, mentre l’andare a Messa, pregare, ecc. è opzionale, e quella che, purché ci sia la pratica religiosa, poi “chiude un occhio” sul comportamento morale.
Evidentemente, la questione teologica che sottende a questi atteggiamenti pratici è importante: si può davvero comportarsi bene senza l’aiuto della grazia di Dio? Addirittura, si può senza di essa cogliere il bene in tutta la sua ampiezza, oppure inevitabilmente si scade nel moralismo (si assolutizzano alcuni aspetti, e magari al tempo stesso se ne silenziano altri)? Una fede che non si traduce in opere di virtù, può essere fede completa?
Al riguardo, vedi il n. 98 di E’ Gesù che passa.
Questo tema è stato al centro delle controversie del secolo della Riforma: la questione della giustificazione. Come diventa giusto l’uomo agli occhi di Dio? E’ un argomento di grande attualità anche oggi.
Per iniziare a trattarlo, ripercorriamo il modo in cui lo impostò san Paolo. Quando egli incontrò il Risorto sulla strada di Damasco era un uomo realizzato: irreprensibile quanto alla giustizia derivante dalla Legge (cfr Fil 3,6), superava molti suoi coetanei nell’osservanza delle prescrizioni mosaiche ed era zelante nel sostenere le tradizioni dei padri (cfr Gal 1,14). L’illuminazione di Damasco gli cambiò radicalmente l'esistenza: cominciò a considerare tutti i meriti, acquisiti in una carriera religiosa integerrima, come “spazzatura” di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (cfr Fil 3,8). Se nella precedente osservanza della Legge non aveva nulla da rimproverarsi dal punto di vista dell’integrità morale, una volta raggiunto da Cristo preferiva non pronunciare giudizi su se stesso (cfr 1 Cor 4,3-4), ma si limitava a proporsi di correre per conquistare Colui dal quale era stato conquistato (cfr Fil 3,12).
È proprio per questa personale esperienza del rapporto con Gesù Cristo che Paolo colloca ormai al centro del suo Vangelo un’irriducibile opposizione tra due percorsi alternativi verso la giustizia: uno costruito sulle opere della Legge, l’altro fondato sulla grazia della fede in Cristo. L’alternativa fra la giustizia per le opere della Legge e quella per la fede in Cristo diventa così uno dei motivi dominanti che attraversano le sue Lettere (cfr. Gal 2,15-16). E ai cristiani di Roma ribadisce che “noi riteniamo, infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge” (Rom 3, 28). (Lutero a questo punto tradusse: “giustificato per la sola fede”).
A questo riguardo nacque però un grande equivoco: nella comunità di Corinto esisteva l’opinione, che sarebbe poi ritornata sistematicamente nella storia, che la legge di cui parlava san Paolo in questi testi fosse la legge morale e che la libertà cristiana consistesse quindi nella liberazione dall’etica. Così a Corinto circolava la parola “πάντα μοι έξεστιν” (tutto mi è lecito). E’ ovvio che questa interpretazione è sbagliata: la libertà cristiana non è libertinismo, la liberazione della quale parla san Paolo non è liberazione dal fare il bene.


Ma che cosa significa dunque la Legge dalla quale siamo liberati e che non salva? Per san Paolo, come per tutti i suoi contemporanei, la parola Legge significava la Torah nella sua totalità, cioè i cinque libri di Mosè. La Torah implicava, nell’interpretazione farisaica, quella studiata e fatta propria da Paolo, un complesso di comportamenti che andava dal nucleo etico fino alle osservanze rituali e cultuali che determinavano sostanzialmente l’identità dell’uomo giusto. Particolarmente la circoncisione, le osservanze circa il cibo puro e generalmente la purezza rituale, le regole circa l’osservanza del sabato, ecc. Comportamenti che appaiono spesso anche nei dibattiti tra Gesù e i suoi contemporanei. Tutte queste osservanze che esprimono una identità sociale, culturale e religiosa erano divenute singolarmente importanti al tempo della cultura ellenistica, cominciando dal III secolo a.C. Questa cultura, che era diventata la cultura universale di allora, ed era una cultura apparentemente razionale, una cultura politeista, apparentemente tollerante, esercitava una pressione forte verso l’uniformità culturale e minacciava così l’identità di Israele, che era politicamente costretto ad entrare in questa identità comune della cultura ellenistica con conseguente perdita della propria identità, perdita quindi anche della preziosa eredità della fede dei Padri, della fede nell’unico Dio e nelle promesse di Dio.
Contro questa pressione culturale, che minacciava non solo l’identità israelitica, ma anche la fede nell’unico Dio e nelle sue promesse, era necessario creare un muro di distinzione, uno scudo di difesa a protezione della preziosa eredità della fede; tale muro consisteva proprio nelle osservanze e prescrizioni giudaiche. Paolo, che aveva appreso tali osservanze proprio nella loro funzione difensiva del dono di Dio, dell’eredità della fede in un unico Dio, ha visto minacciata questa identità dalla libertà dei cristiani: per questo li perseguitava. Al momento del suo incontro con il Risorto capì che con la risurrezione di Cristo la situazione era cambiata radicalmente. Con Cristo, il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro – così dice nella Lettera agli Efesini – tra Israele e i pagani non era più necessario: è Cristo che ci protegge contro il politesimo e tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità delle culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo, ed è lui che ci fa giusti. Essere giusto vuol semplicemente dire essere con Cristo e in Cristo. E questo basta.
Pertanto, non essendo più necessarie altre osservanze, l’espressione “sola fide” di Lutero è vera, a patto però di opporla alle opere della Legge, non alla carità, all’amore.
La fede infatti è guardare Cristo, affidarsi a Cristo, attaccarsi a Cristo, conformarsi a Cristo, alla sua vita. E la forma, la vita di Cristo è l’amore; quindi credere è conformarsi a Cristo ed entrare nel suo amore. San Paolo nella Lettera ai Galati, nella quale soprattutto ha sviluppato la sua dottrina sulla giustificazione, parla della fede che opera per mezzo della carità (cfr Gal 5,14).
Sinteticamente, possiamo dire che l'uomo non è in grado di farsi “giusto” con le sue proprie azioni, ma può realmente divenire “giusto” davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua “giustizia” unendolo a Cristo suo Figlio. E questa unione con Cristo l’uomo l’ottiene mediante la fede. In questo senso san Paolo ci dice: non le nostre opere, ma la fede ci rende “giusti”. Questa fede, tuttavia, non è un pensiero, un'opinione, un'idea. Questa fede è comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, diventa conformità con Lui. O, con altre parole, la fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una fede senza carità, senza questo frutto non sarebbe vera fede. Sarebbe fede morta.
Si possono quindi individuare due livelli: quello della non rilevanza delle nostre azioni, delle nostre opere per il raggiungimento della salvezza e quello della “giustificazione” mediante la fede che produce il frutto dello Spirito. La confusione di questi due livelli ha causato, nel corso dei secoli, non pochi fraintendimenti nella cristianità.
E’ importante che san Paolo nella stessa Lettera ai Galati ponga, da una parte, l’accento, in modo radicale, sulla gratuità della giustificazione non per le nostre opere, ma che, al tempo stesso, sottolinei pure il fatto che vi sono, da una parte, le “opere della carne” che sono “fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria...” (Gal 5,19-21): tutte opere contrarie alla fede; dall’altra, vi è l’azione dello Spirito Santo, che alimenta la vita cristiana suscitando “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22): sono questi i frutti dello Spirito che sbocciano dalla fede. Vista in questa prospettiva, la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell’amore; anzi esige che la nostra stessa fede si esprima in una vita secondo lo Spirito.
Spesso siamo portati a cadere negli stessi fraintendimenti che hanno caratterizzato la comunità di Corinto: quei cristiani pensavano che, essendo stati giustificati gratuitamente in Cristo per la fede, “tutto fosse loro lecito”. Spesso sembra che lo pensino anche cristiani di oggi Disastrose sono le conseguenze di una fede che non s’incarna nell’amore, perché si riduce all’arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi e per i fratelli. Al contrario, seguendo san Paolo, dobbiamo prendere rinnovata coscienza del fatto che, proprio perché giustificati in Cristo, non apparteniamo più a noi stessi, ma siamo diventati tempio dello Spirito e siamo perciò chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo con tutta la nostra esistenza (cfr 1 Cor 6,19). Sarebbe uno svendere il valore inestimabile della giustificazione se, comprati a caro prezzo dal sangue di Cristo, non lo glorificassimo con il nostro corpo. In realtà, è proprio questo il nostro culto “ragionevole” e insieme “spirituale”, per cui siamo esortati da Paolo a “offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). A che cosa si ridurrebbe una liturgia rivolta soltanto al Signore, senza diventare, nello stesso tempo, servizio per i fratelli, una fede che non si esprimesse nella carità?
Se l’etica che Paolo propone ai credenti non scade in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta, riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo, per inverarsi nella vita secondo lo Spirito. Questo è essenziale: l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Questa amicizia influenza la vita: se è vera si incarna e si realizza nell'amore per il prossimo. Per questo, qualsiasi decadimento etico non si limita alla sfera individuale, ma è nello stesso tempo svalutazione della fede personale e comunitaria: da questa deriva e su essa incide in modo determinante.
Pertanto, al centro dell’insegnamento di san Tommaso d’Aquino in campo morale, egli pone la legge nuova, che è la legge dello Spirito Santo. Con uno sguardo profondamente evangelico, insiste sul fatto che questa legge è la Grazia dello Spirito Santo data a tutti coloro che credono in Cristo. A tale Grazia si unisce l’insegnamento scritto e orale delle verità dottrinali e morali, trasmesso dalla Chiesa. San Tommaso, sottolineando il ruolo fondamentale, nella vita morale, dell’azione dello Spirito Santo, della Grazia, da cui scaturiscono le virtù teologali e morali, fa comprendere che ogni cristiano può raggiungere le alte prospettive del “Sermone della Montagna” se vive un rapporto autentico di fede in Cristo, se si apre all’azione del suo Santo Spirito. Però – aggiunge l’Aquinate – “anche se la grazia è più efficace della natura, tuttavia la natura è più essenziale per l’uomo” (Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 6, ad 2), per cui, nella prospettiva morale cristiana, c’è un posto per la ragione, la quale è capace di discernere la legge morale naturale. La ragione può riconoscerla considerando ciò che è bene fare e ciò che è bene evitare per il conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche una responsabilità verso gli altri, e, dunque, la ricerca del bene comune. In altre parole, le virtù dell’uomo, teologali e morali, sono radicate nella natura umana. La Grazia divina accompagna, sostiene e spinge l’impegno etico ma, di per sé, secondo san Tommaso, tutti gli uomini, credenti e non credenti, sono chiamati a riconoscere le esigenze della natura umana espresse nella legge naturale e ad ispirarsi ad essa nella formulazione delle leggi positive, quelle cioè emanate dalle autorità civili e politiche per regolare la convivenza umana.
Quando la legge naturale e la responsabilità che essa implica sono negate, si apre drammaticamente la via al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul piano politico. La difesa dei diritti universali dell’uomo e l’affermazione del valore assoluto della dignità della persona postulano un fondamento. Non è proprio la legge naturale questo fondamento, con i valori non negoziabili che essa indica? Il Venerabile Giovanni Paolo II scriveva nella sua Enciclica Evangelium vitae parole che rimangono di grande attualità: “Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano, ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere” (n. 71).
In conclusione, Tommaso ci propone un concetto della ragione umana largo e fiducioso: largo perché non è limitato agli spazi della cosiddetta ragione empirico-scientifica, ma aperto a tutto l’essere e quindi anche alle questioni fondamentali e irrinunciabili del vivere umano; e fiducioso perché la ragione umana, soprattutto se accoglie le ispirazioni della fede cristiana, è promotrice di una civiltà che riconosce la dignità della persona, l'intangibilità dei suoi diritti e la cogenza dei suoi doveri. Non sorprende che la dottrina circa la dignità della persona, fondamentale per il riconoscimento dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo, sia maturata in ambienti di pensiero che hanno raccolto l’eredità di san Tommaso d’Aquino, il quale aveva un concetto altissimo della creatura umana. La definì, con il suo linguaggio rigorosamente filosofico, come “ciò che di più perfetto si trova in tutta la natura, cioè un soggetto sussistente in una natura razionale” (Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 3).








venerdì 1 aprile 2011

La Riforma Universitaria e i giovani: luci e ombre sul percorso di studi e di carriera

Lunedì 4 aprile 2011 - ore 20,45

Intervengono

On. Paola Frassinetti
Vicepresidente della Commissione Cultura,
Scienza e Istruzione alla Camera
Relatrice del ddl sulla Riforma Universitaria

On. Paola Binetti
Componente Commissione per gli Affari Sociali alla Camera
Professore Ordinario di Storia della Medicina
presso l'Università Campus Bio-Medico Roma

Modera

Gianni Trovati
Giornalista de Il sole 24 ore


Collegio Universitario Viscontea
Via Alfonso Lamarmora, 17 -  20122  Milano
Tel 02- 55181434