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mercoledì 27 aprile 2011

La scoperta della legge morale: dove e come

A)

Abbiamo compreso che, data la struttura della persona umana e le caratteristiche del suo agire, il fine prossimo, immanente alla persona e più immediato, che la persona ha, è l’instaurazione dentro di sé del governo della ragione, nel rispetto anche della giusta autonomia della dimensione affettiva, ovvero in altre parole il radicamento delle virtù.

Rimane da risolvere il problema del riferimento oggettivo in base al quale si può dire che la ragione, con il suo governo, sta conducendo l’uomo verso il suo vero bene. Questo è senz’altro un compito della ragione umana: per l’unità della persona, non può che essere la facoltà che presenta l’oggetto alla volontà quella deputata a misurarne la moralità (cfr. Veritatis splendor, nn. 36 e 44). La ragione non è solo il veicolo attraverso il quale riconosciamo i valori morali, ma è ciò che li costituisce formalmente come tali (la dottrina classica e della Chiesa non ammette l’innatismo di matrice platonico-cartesiana). Dal punto di vista teologico, la legge naturale è la partecipazione nell’essere razionale del progetto di Dio. Ciò non toglie che l’unico nostro strumento per conoscerla è la nostra ragione (cfr. nota 19 al n. 12 della Veritatis Splendor e vedi anche Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1955: “Questa legge è chiamata naturale non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della natura umana”):

Naturalmente, questa ragione alla quale spetta tale delicato e cruciale compito, non è una ragione “qualsiasi” –altrimenti sarebbe difficile evitare il relativismo-, ma quella ragione che S. Tommaso, seguendo fin qui Aristotele, chiama la recta ratio, ovvero la ragione dell’uomo saggio. Tuttavia, limitarsi a questo lascia in una sorta di circolo vizioso, perché ne viene fuori che la ragione che edifica le virtù è la ragione della persona già virtuosa.

Aristotele tenta di uscire dal circolo virtuoso a livello pratico, ovvero riconoscendo che attraverso l’influsso educativo amicale l’uomo può giungere a un livello minimale di bontà tale che poi la sua ragione sia in grado di farlo diventare ancora più buono, ovvero ammettendo che non si può diventare del tutto buoni da soli.

San Tommaso cerca di uscire dal circolo vizioso anche a livello teorico e definisce la recta ratio in vari modi:
-la ragione illuminata dai primi principi dell’ordine morale, colti dalla sinderesi in modo naturale (livello più alto della legge naturale, come vedremo sotto).
-la ragione che agisce secondo il proprio statuto interno, senza subire interferenze o pressioni (per es., da parte delle passioni).

“L’obbligo morale che il soggetto riconosce non proviene dunque da una legge che gli sarebbe esteriore (pura eteronomia), ma si afferma a partire da lui stesso…Il termine ‘legge’ qui non rinvia né alle leggi scientifiche, che si limitano a descrivere le costanti di fatto del mondo fisico e sociale, né a un imperativo imposto arbitrariamente dall’esterno al soggetto morale. La legge designa qui un orientamento della ragione pratica che indica al soggetto morale quale tipo di agire sia conforme al dinamismo innato e necessario del suo essere che tende alla sua piena realizzazione. Questa legge è normativa in virtù di un’esigenza interna dello spirito…Non si tratta quindi di sottomettersi alla legge di un altro, ma di accogliere la legge del proprio essere” (Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009, n. 43).

B)

Il punto cruciale rimane quindi quello di esplicitare meglio qual’è il riferimento oggettivo in base al quale la ragione umana può stabilire cosa è bene e cosa è male. Procediamo per gradi. Innanzitutto, si può dire che l’uomo tende verso una vita buona, intendendo con questa espressione una vita che comporta la realizzazione piena delle potenzialità della natura umana.

Possiamo chiamare questo fine felicità, intendendo però che essa includa la piena realizzazione delle inclinazioni della natura, nel rispetto della loro gerarchia, anzi fondamentalmente consista in ciò: essa possiede quindi sia un certo carattere doveroso, sia un certo carattere oggettivo, ed è quindi al riparo delle critiche di Kant (consistenti nel ritenere che la felicità non possa essere il degno fine dell’uomo, perché nozione troppo soggettiva ed edonistica). Parliamo di felicità intendendola come lo stato che consegue al raggiungimento di tutti i beni che la ragione percepisce come proporzionati alla natura umana: in questo senso, che si definisce inclusivo (non esclude aprioristicamente alcuni beni a preferenza di altri, sebbene li colga nella loro gerarchia di importanza) e formale (questi fini sono colti come beni dalla ragione), riteniamo che tale fine sia necessariamente voluto da ogni uomo, nella misura in cui egli esercita nell’azione la sua intelligenza e la sua volontà.

Non sempre usiamo la parola felicità in questo senso: per esempio, nella frase “Tizio ha sacrificato la sua felicità per assistere una persona malata”, la parola felicità ha un significato parziale, si riferisce ad alcuni beni. Se la si intendesse nel senso inclusivo e formale sopra descritto, allora si dovrebbe dire che proprio per essere felice la persona ha rinunciato a talune possibilità per compiere un certo dovere. Non si tratta quindi di una felicità edonista, per cui la sua ricerca non solo non osta all’agire moralmente bene, ma praticamente coincide con esso. Il motivo per cui a noi può capitare di ritenere che sia una contraddizione parlare di felicità doverosa, è che il termine dovere ha due significati, dei quali però nel linguaggio comune si conosce e si pratica solo uno, quello cioè di “obbligo che ha la sua origine in un rapporto giuridico esteriore”. In questo senso, non è possibile che la felicità diventi un dovere. Ma dovere significa anche: “bene da perseguire perché è degno dell’uomo”. Allora, felicità doverosa significa non felicità a cui si è obbligati da una legge, ma felicità che, a motivo del bene oggettivo che essa è, è degna di essere perseguita liberamente da un uomo. E’ possibile quindi abbozzare dei criteri per definire una vera e una falsa felicità per l’uomo. Certamente solo il soggetto può dire se si sente felice; ma esiste anche la questione dell’essere felice. Infatti, la felicità è anche in funzione dell’importanza che ognuno attribuisce ai diversi fini raggiungibili, ma tale importanza è valutabile almeno in parte oggettivamente, con un giudizio vero o errato.

[Per aiutare a comprendere meglio questa distinzione, un autore ha proposto di pensare a un’ipotetica “macchina delle esperienze”, congegnata in modo tale da poter provocare, mediante stimolazione del cervello, in un soggetto che non fa nulla, tutte le esperienze che egli desideri. La domanda è: è desiderabile una vita simile, fatta tutta di esperienze alle quali non corrisponde alcuna realtà? Una vita, cioè, di soddisfazioni, ma non di attività? Quali sono la ragioni per cui chiunque risponderebbe che una simile esistenza non è degna di essere desiderata da un uomo? Si potrebbe dire che questo caso limite ci aiuta a cogliere che della felicità fanno parte l’agire personalmente in qualche modo e l’essere aderenti alla realtà. Questi elementi sono la base per un  giudizio intorno a se un certo sentirsi felice corrisponde o meno a un esserlo davvero (come una persona umana lo può essere)].


Arriviamo quindi alla fine a determinare che il riferimento oggettivo della felicità, che è quello nel quale la ragione retta legge i fondamentali principi morali, è costituito dalle inclinazioni che la natura umana mostra, e che segnalano quali sono i beni per l’uomo. Moralmente buono sarà ciò che va nella linea di favorire il raggiungimento di tali beni, male sarà ciò che va in direzione diversa. In altre parole, qual’é il riferimento oggettivo che misura la rettitudine della ragione? Ovvero, dove essa legge il vero bene dell’uomo? La risposta della filosofia classica è che essa li trova nelle inclinazioni della natura. Esse sono quelle tendenze che la natura umana possiede, verso il proprio perfezionamento, verso il colmare le lacune del proprio essere, verso il far passare all’atto le proprie potenzialità. Vedi il testo di Benedetto XVI riportato in fondo.

Una precisazione importante –già accennata sopra- riguarda il fatto che qui ci serviamo del concetto di natura, inteso non in senso fisico (natura come parte biologica, contrapposta a spirito e a libertà), ma in senso metafisico (natura come essenza di un ente, origine delle sue azioni e delle sue caratteristiche specifiche) e universale (ciò che compete alla struttura di un ente, anche se può non darsi in casi particolari). Cfr. Veritatis splendor, nn 47-50. Sono utili le seguenti considerazioni: “E’ anzitutto essenziale sviluppare un’idea non concorrenziale dell’articolazione tra la causalità divina e la libera attività del soggetto umano. Il soggetto umano realizza se stesso inserendosi liberamente nell’azione provvidenziale di Dio e non opponendosi ad essa…La libertà suppone che la volontà umana sia ‘messa sotto tensione’ dal desiderio naturale del bene e del fine ultimo. Il libero arbitrio si esercita allora nella scelta degli oggetti finiti che consentono di raggiungere tale fine…Una filosofia della natura che prenda atto della profondità intelligibile del mondo sensibile e, soprattutto, una metafisica della creazione consentono poi di superare la tentazione dualistica e gnostica di abbandonare la natura all’insignificanza morale…Tuttavia la riabilitazione della natura e della corporeità in etica non può equivalere a un qualunque ‘fisicismo’. Infatti alcune presentazioni moderne della legge naturale…, trascurando di considerare l’unità della persona umana, assolutizzano le inclinazioni naturali delle diverse ‘parti’ della natura umana, accostandole senza gerarchizzarle e tralasciando di integrarle nell’unità del progetto globale del soggetto. Ora, spiega Giovanni Paolo II, ‘le inclinazioni naturali non acquistano una qualità morale, se non in quanto si rapportano alla persona umana e alla sua realizzazione autentica’” (Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009, nn. 77-79).

[Tenendo conto del fatto che la metafisica da parte sua giunge alla dimostrazione che Dio è il Fine Ultimo di ogni creatura, cioè Colui che attira a sé ogni cosa, si conclude facilmente –tenendo conto anche di ciò che diremo tra poco- che tale fine ultimo, guardato da un punto di vista globale, è l’unione con Dio che l’uomo realizza attraverso la sua parte spirituale. Infatti, l’instaurazione del governo della ragione nella persona rende possibile che l’uomo proceda verso la realizzazione delle inclinazioni della sua natura e ciò facendo attinga il fine ultimo oggettivo, che la metafisica ci mostra essere Dio: “homo Deo coniungitur ratione, sive mente, in qua est Dei imago” (S. Th., I-II. Q. 100, a. 2)].


C)

Ora, occorre affrontare il compito della determinazione della legge naturale, cioè descrivere sinteticamente l’insieme dei fondamentali principi morali ai quali la nostra ragione giunge lavorando sulle inclinazioni che ritrova nella natura di cui fa parte. Tale studio (del quale qui si dà solo uno schema) getterà anche una luce utile sul percorso fatto finora. Relativamente all’attività della recta ratio nella determinazione della legge naturale, considereremo alcuni aspetti metodologici (C 1) e gli aspetti contenutistici (C 2).



C 1)

 

L’attività della recta ratio si svolge a due livelli:
-quello intellettuale dei principi, che vengono “intuiti”, “visti”, indotti
-quello discorsivo, dei ragionamenti con il quali viene elaborata la scienza morale
(ricordiamo che, per poter poi arrivare al giudizio sulle singole azioni, occorre anche un terzo livello, quello a cui si situano la coscienza e la prudenza).

Al primo livello, la recta ratio coglie il primo principio della ragione pratica (il bene è da fare, il male è da evitare, ovvero ci sono cose da fare e cose da evitare, che chiamiamo bene e male), e inoltre i beni costituiti dal contenuto generico delle virtù.

A partire da questi principi, essa va poi scoprendo (e questo è il secondo livello) le esigenze concrete delle singole virtù, avendo come riferimento la vita e la natura dell’uomo. Si costruisce così la scienza morale, che è ancora universale, anche se più vicina ai casi particolari reali. Vengono formulate delle norme, che non possono esprimere tutta la ricchezza dell’agire positivo secondo virtù. Soprattutto, esse enunciano quei comportamenti che, in ogni caso, non sono da mettere in atto perché ledono una virtù (occorre osservare che la formulazione prevalentemente negativa dei Comandamenti esprime proprio questo fatto). Ricordiamo che determinante per stabilire se una certa norma appartiene alla legge naturale è la connessione necessaria con i primi principi o le virtù, e non il fatto che sia immediatamente o facilmente conoscibile. Di qui, il fatto che possa essere necessario educare alla conoscenza della legge naturale.

“A partire da queste inclinazioni si possono formulare i precetti primi della legge naturale, conosciuti naturalmente. Tali precetti sono molto generali, ma formano come un primo substrato che è alla base di tutta la riflessione ulteriore sul bene da praticare e sul male da evitare. Per uscire da questa generalità e chiarire le scelte concrete da fare, bisogna ricorrere alla ragione discorsiva, che determina quali sono i beni morali concreti in grado di realizzare la persona e l’umanità, e formula precetti più concreti capaci di guidare il suo agire. Il questa nuova tappa la conoscenza del bene morale procede per ragionamento. Esso all’origine è molto semplice: gli è sufficiente una limitata esperienza di vita e si mantiene all’interno delle possibilità intellettuali di ciascuno. Si parla qui dei ‘precetti secondi’ della legge naturale, scoperti grazie a una più o meno lunga considerazione della ragione pratica, per contrasto con i precetti generali fondamentali che la ragione coglie spontaneamente e che sono chiamati ‘precetti primi’” (Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009, nn. 46-47).

Riguardo al problema dell’esistenza di norme morali assolute e immutabili, esse possono esistere e sono quelle che riguardano le componenti necessarie del bonum rationis (cfr. Veritatis Splendor, nn. 79-80). Il quesito rimanda a se si possa sostenere che esiste una natura umana immutabile nel tempo e nello spazio, anche in questo caso ammettendo che accanto a un nucleo stabile esistano variazioni possibili, culturali o d’altro tipo. La domanda può porsi anche nella forma di stabilire se la libertà umana abbia potere illimitato di attribuire significati agli atti naturali, o se tale potere, che senz’altro possiede, trovi invece un limite: la nostra risposta è la seconda, che si basa sulla constatazione che la corporeità e tutti gli elementi naturali non fanno parte dell’avere della persona (il che li renderebbe totalmente disponibili alla libertà), bensì invece del suo essere. Naturalmente, questa risposta è facilitata da una visione creazionista della realtà, per cui la natura ha dei significati oggettivi corrispondenti al progetto del Creatore.


D’altro canto, è evidente che nella comune percezione delle persone, nei luoghi e nei tempi diversi, ci sono oscillazioni in alcuni aspetti della legge naturale. Non tutto, nella natura umana e nella sua percezione da parte dell’uomo è proprio fisso. Ciò è certamente vero, anche se occorre ricordare che dire che un precetto è di legge naturale non equivale a dire che sia conoscibile con facilità da chiunque e in ogni temperie culturale (cioè, questo problema si intreccia con quello della conoscibilità). D’altra parte, proprio il fatto che noi sperimentiamo il cambiamento di alcune cose (accidentali) di ciò che in alcuni tempi è percepito come facente parte della natura umana e quindi della legge naturale, mostra che cogliamo al tempo stesso alcuni aspetti invece fissi, un soggetto permanente, altrimenti il cambiamento stesso non sarebbe intelligibile.

Quindi, in qualche caso può essere difficile determinare se un certo cambiamento ha la sua origine in un oscuramento della ragione umana, che rende più difficile percepire un punto che peraltro rimane di legge naturale ed è quindi immutabile, o se invece quel cambiamento è accettabile perché ha la sua causa in una variazione culturale che non tocca il nucleo della legge naturale. Allo stesso modo, in biologia può essere difficile talvolta capire se un ente è un vivente o un non-vivente, ma ciò non infirma la chiarezza della distinzione tra vita e non vita.

“Il moralista (questa è la difficoltà del suo lavoro) deve ricorrere alle risorse combinate della teologia, della filosofia, come pure delle scienze umane, economiche e biologiche per riconoscere bene i dati della situazione e identificare correttamente le esigenze concrete della dignità umana. Al tempo stesso, egli deve essere particolarmente attento a salvaguardare i dati di base espressi con i precetti della legge naturale che rimangono al di là delle variazioni culturali” (Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, 2009, n. 54).


C 2)

Lo schema, molto sintetico, del processo di scoperta del contenuto della legge naturale è espresso da San Tommaso in S. Th., I-II, q. 94, a. 2, citato alla nota 93 della Veritatis Splendor. Tale schema procede studiando le componenti della persona umana “dal basso verso l’alto”, cioè passando dalla vita vegetativa a quella sensibile a quella razionale. Bisogna naturalmente tenere conto del fatto che la vita razionale “sovrastante” influisce sulle altre due dimensioni, ovvero la lettura delle inclinazioni umane viene fatta tenendo conto delle dignità della dignità della persona umana, che va sempre affermata. L’esemplificazione di San Tommasova ben intesa perché, presa alla lettera, potrebbe indurre a conclusioni errate e, oltre tutto, contrarie allo spirito dell’antropologia e dell’etica tomista. L’uomo, infatti, è chiamato ad attestare la sua spiritualità anche nelle azioni più banali. Non è che l’uomo debba conservarsi come qualsiasi altro ente, riprodursi come qualsiasi animale e, in più, speculare sulla verità. Un uomo deve conservarsi da uomo, per esempio, accettando di alimentarsi solo al minimo della sussistenza in un tempo di carestia, poiché il suo essere uomo gli esige di pensare anche al bene comune; oppure, può dover rischiare la vita per portare un soccorso necessario a un malato contagioso; d’altra parte, il libero e consapevole sacrificio per il prossimo può avere un valore religioso superiore alla speculazione intorno a Dio. In sintesi, il conseguimento dei valori spirituali non si attua solo nella contemplazione, ma è la “forma” di ogni valore autenticamente umano.

Accenniamo ora ad alcuni temi importanti della legge naturale.



C 2 1)

Il trattamento da riservare alla vita umana alla luce dell’inclinazione di ogni ente alla conservazione nell’essere e del valore supremo della persona umana. Assumiamo come punto fermo il fatto che l’uomo è un’unità di spirito e di corpo, e che quindi non c’è intervento sulla dimensione fisica che non coinvolga, più o meno, la persona. Si può ritenere che la vita fisica sia la condizione necessaria, il “luogo” dello sviluppo della persona. E’ quindi un bene primario (non supremo, perché ci sono valori personali per i quali è legittimo, o anche doveroso, esporsi al pericolo di danneggiarla o perderla).

Si dà quindi un primo grande principio: la vita umana innocente (cioè che non sta attualmente aggredendo beni personali altrui importanti) è inviolabile in modo diretto e volontario. La ragione profonda di ciò è che, così facendo, si interromperebbe lo sviluppo della vita dello spirito (immortale). Si pongono pertanto alcune problematiche specifiche:
-la legittima difesa e la pena di morte: si affrontano come casi di azioni a doppio effetto, dotate di un effetto indiretto cattivo. La vita che viene offesa manca del requisito dell’innocenza (sottolineatura importante riguardo alla proporzionalità della reazione, che rende oggi in linea di massima improponibile la pena di morte);
-riguardo all’aborto diretto, occorre evidenziare che la proibizione assoluta di esso vale indipendentemente dall’esito del dibattito intorno al momento dell’infusione dell’anima. L’aborto può essere terapeutico (finalizzato alla salute della madre) o eugenetico (finalizzato alla qualità della vita del bambino): il secondo ha una gravità particolare, derivante dal fatto che include il giudizio da parte della società sulla qualità della vita di un'altra persona. Questioni particolari riguardanti l’aborto sono quella relativa alla colpa morale personale dei vari protagonisti, e quella concernente il rapporto tra aborto e contraccezione;
-l’eutanasia include anch’essa un giudizio sulla qualità di una vita vivibile: è su questo punto che occorre agire, sia teoricamente che praticamente;
-vanno accomunate sotto l’unica voce di forme di dominio eccessivo sulla vita umana situazioni morali quali l’accanimento terapeutico, la fecondazione artificiale, la sperimentazione su persone umane.

Esistono poi delle problematiche relative al livello non della vita/morte, ma della salute/malattia. Importante è al riguardo la comprensione della terminologia, che porta oggi a parlare di mezzi proporzionati o sproporzionati, più che di mezzi ordinari o straordinari. Il principio più generale a cui rifarsi è quello di totalità. Esso afferma che il bene del tutto giustifica il sacrificio della parte, dove per tutto si può intendere il corpo intero nei confronti di un suo membro, oppure la persona intera nei confronti della sua parte organica. Applicazioni di questo principio riguardano gli interventi chirurgici (una certa attenzione merita oggi il caso degli interventi di chirurgia plastica, estetica o ricostruttiva), le terapie farmacologiche includenti psico-farmaci, analgesici, cure palliative, le problematiche dei trapianti, soprattutto da vivente.

Va chiarito che in nessun modo il principio di totalità si può applicare intendendo la persona parte rispetto al tutto che sarebbe la società.

Una problematica relativa a questo settore è quella della tossicodipendenza, leggera o pesante.

Come già detto sopra, una conseguenza del fatto che il bene della vita va cercato dall’uomo in modo umano, è quella che può essere opportuno o doveroso sacrificare un bene personale fisico, anche la stessa vita, per un valore personale spirituale, particolarmente alto.


C 2 2)

Riguardo alla maniera conforme al livello della persona umana di vivere la dimensione sessuale, si richiede che nell’esercizio della dimensione sessuale venga messa in gioco l’intera persona, cioè che i soggetti che si mettono in comunicazione attraverso questa dimensione sia le due persone, nella loro interezza. Affinché ciò si dia, nessuna componente importante della persona può essere deliberatamente e direttamente esclusa da questo tipo di relazione. Da questo principio derivano i tre principali requisiti del rapporto uomo-donna, quando esso si svolge in maniera conforme alla natura umana:
a)      l’esclusività della relazione (su questo punto, per es., è deficitaria tra l’altro la fecondazione artificiale eterologa);
b)      La definitività della relazione (cioè, la dimensione del futuro non riservata o aperta ad altre possibilità);
c)      l’apertura (quanto a volontà diretta) alla procreazione (la persona propria offerta e quella altrui accettata nella loro integrità).

La realtà sopradescritta, quando si realizza, dà luogo a un vero matrimonio (per chi è battezzato si aggiunge la necessità della forma canonica sacramentale). Qualora mancasse, già dall’inizio, in maniera netta anche solo uno dei tre elementi, il patto tra l’uomo e la donna non configura un vero matrimonio. La realtà che si instaura quando i coniugi, per motivi validi, restringono l’esercizio della vita coniugale ai soli periodi nei quali la donna non può concepire (metodi naturali) è profondamente diversa dal punto di vista antropologico rispetto all’uso della contraccezione, e fa parte dell’uso intelligente (cioè conforma alla natura umana) che l’uomo è chiamato a esercitare nei confronti dei meccanismi della natura, rispettandoli. E’ alla luce di questi requisiti, auspicabili per il matrimonio, che occorre partire per comprendere le modalità adeguate di vivere la relazione pre-matrimoniale.

Così come nel caso dell’inclinazione alla conservazione della vita, anche per ciò che riguarda l’esercizio della sessualità, beni spirituali di grande valore giustificano la rinunzia ad esso, senza che ne derivi una menomazione della persona.

L’omosessualità praticata non rispetta il requisito dell’apertura alla vita, ma più in generale ancora si può mettere in discussione il fatto che in questo tipo di relazione avvenga, a livello oggettivo, un’autentica comunicazione tra le due persone, perché essa finisce per assumere soprattutto l’aspetto della somma di due individualismi. Di fatto, è raro che una relazione omosessuale rispetti anche i primi due requisiti. Naturalmente, l’aspetto soggettivo delle persone coinvolte merita un’adeguata considerazione.


C 2 3)

Le norme di legge naturale che derivano dalla razionalità dell’uomo (le inclinazioni specificamente umane), possono così riassumersi:
-L’inclinazione alla ricerca della verità comporta il compito di cercare la verità, e il conseguente diritto a immunità da coercizione nella ricerca della verità (la libertà religiosa). Esiste anche il dovere di tentare di far uscire dall’ignoranza che vi si trova (cfr. Veritatis Splendor, n. 63), con gradualità e ragionevolezza. La menzogna è una delle più gravi forme di violenza, poiché altera la capacità decisionale della persona (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2486). Questioni relative a libertà di stampa, diritto di informazione, doveri di tutelare la buona fama, ricerca del consenso informato in medicina, problema riguardante le Dichiarazioni anticipate di trattamento in relazione con la vita e la morte, ecc.
-Lo studio dell’inclinazione dell’uomo alla vita in società porta a mettere in luce la priorità della famiglia come cellula della società. Il dovere-diritto dello stato di non equiparare del tutto la famiglia naturale ad altre forme di aggregazione tra persone (Familiaris consortio, n. 43). Lo sviluppo della Dottrina sociale della Chiesa conduce a mettere a fuoco il diritto alla proprietà privata, il principio di sussidiarietà e il principio di solidarietà. Le vaste applicazioni della Dottrina sociale della Chiesa meritano uno studio a parte



Dal Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace 2008, nn. 11-13
11. Una famiglia vive in pace se tutti i suoi componenti si assoggettano ad una norma comune: è questa ad impedire l'individualismo egoistico e a legare insieme i singoli, favorendone la coesistenza armoniosa e l'operosità finalizzata. Il criterio, in sé ovvio, vale anche per le comunità più ampie: da quelle locali, a quelle nazionali, fino alla stessa comunità internazionale. Per avere la pace c'è bisogno di una legge comune, che aiuti la libertà ad essere veramente se stessa, anziché cieco arbitrio, e che protegga il debole dal sopruso del più forte. Nella famiglia dei popoli si verificano molti comportamenti arbitrari, sia all'interno dei singoli Stati sia nelle relazioni degli Stati tra loro. Non mancano poi tante situazioni in cui il debole deve piegare la testa davanti non alle esigenze della giustizia, ma alla nuda forza di chi ha più mezzi di lui. Occorre ribadirlo: la forza va sempre disciplinata dalla legge e ciò deve avvenire anche nei rapporti tra Stati sovrani.
12. Sulla natura e la funzione della legge la Chiesa si è pronunciata molte volte: la norma giuridica che regola i rapporti delle persone tra loro, disciplinando i comportamenti esterni e prevedendo anche sanzioni per i trasgressori, ha come criterio la norma morale basata sulla natura delle cose. La ragione umana, peraltro, è capace di discernerla, almeno nelle sue esigenze fondamentali, risalendo così alla Ragione creatrice di Dio che sta all'origine di tutte le cose. Questa norma morale deve regolare le scelte delle coscienze e guidare tutti i comportamenti degli esseri umani. Esistono norme giuridiche per i rapporti tra le Nazioni che formano la famiglia umana? E se esistono, sono esse operanti? La risposta è: sì, le norme esistono, ma per far sì che siano davvero operanti bisogna risalire alla norma morale naturale come base della norma giuridica, altrimenti questa resta in balia di fragili e provvisori consensi.
13. La conoscenza della norma morale naturale non è preclusa all'uomo che rientra in se stesso e, ponendosi di fronte al proprio destino, si interroga circa la logica interna delle più profonde inclinazioni presenti nel suo essere. Pur con perplessità e incertezze, egli può giungere a scoprire, almeno nelle sue linee essenziali, questa legge morale comune che, al di là delle differenze culturali, permette agli esseri umani di capirsi tra loro circa gli aspetti più importanti del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto. È indispensabile risalire a questa legge fondamentale impegnando in questa ricerca le nostre migliori energie intellettuali, senza lasciarci scoraggiare da equivoci e fraintendimenti. Di fatto, valori radicati nella legge naturale sono presenti, anche se in forma frammentata e non sempre coerente, negli accordi internazionali, nelle forme di autorità universalmente riconosciute, nei principi del diritto umanitario recepito nelle legislazioni dei singoli Stati o negli statuti degli Organismi internazionali. L'umanità non è « senza legge ». È tuttavia urgente proseguire nel dialogo su questi temi, favorendo il convergere anche delle legislazioni dei singoli Stati verso il riconoscimento dei diritti umani fondamentali. La crescita della cultura giuridica nel mondo dipende, tra l'altro, dall'impegno di sostanziare sempre le norme internazionali di contenuto profondamente umano, così da evitare il loro ridursi a procedure facilmente aggirabili per motivi egoistici o ideologici

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