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sabato 16 aprile 2011

Il percorso verso la meta: lo sviluppo delle virtù

Descrizione dell’azione volontaria


Nel processo di crescita morale di un cristiano interviene in maniera determinante la grazia di Dio –come abbiamo visto nella lezione scorsa-, però il suo agire non stravolge il processo umano di sviluppo delle virtù, bensì passa attraverso di esso, per cui ha senso studiare tale processo dal punto di vista dei suoi “meccanismi” antropologici, ovvero di quelli di crescita della persona, anche quella  nella quale non opera la grazia di Dio. Pur con i limiti che ha, ovviamente, ogni tentativo di “vivisezionare” l’agire umano, cercheremo di seguire prevalentemente l’ordine con il quale la persona giunge a scoprire e a praticare la legge morale.

Partiamo da un’osservazione ovvia ma interessante: la possibilità e la necessità di una valutazione morale dell’agire umano nascono quando in esso noi riscontriamo il requisito della volontarietà, o libertà. Infatti, è perché e quando sono libero che sono in grado di spiegare la ragione per cui agisco in un certo modo, e questa ragione –esplicitabile oggettivamente- può essere valutata. Ciò mette in evidenza un primo punto importantissimo: la moralità di una azione non proviene, almeno in prima battuta, dalla relazione estrinseca con una norma (una sorta di etichetta appiccicata dal di fuori), bensì è una qualità intrinsecamente posseduta dall’agire umano, una conseguenza della libertà che connota la stragrande maggioranza delle azioni umane. Questo punto è oggi di estrema importanza, dal momento che la società attuale tende a sostituire la carenza di responsabilità morale di molte persone mediante un accumulo di norme assai precise, le quali però non sono in grado di creare la moralità dal di fuori, bensì al massimo di registrarla.

Nella lezione scorsa abbiamo colto la frase di Benedetto XVI: “Questo è essenziale: l'etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Questa amicizia influenza la vita”. Oggi ci dedichiamo a studiare il percorso lungo il quale avviene questo influsso, o comunque ogni uomo va facendosi più buono mediante il suo stesso agire. Solo più avanti affronteremo l’argomento della scoperta della legge morale e della sua funzione: seguiamo questo ordine perché così è nella natura delle cose.

L’agire volontario è quello che procede da un principio intrinseco all’uomo e inoltre è accompagnato da una conoscenza formale del fine (cioè, il soggetto conosce ciò in vista di cui agisce, e tale conoscenza è la motivazione per cui agisce). Si tratta, quindi, non solo di azioni spontanee, ma anche di azioni coscienti, che includono nella loro struttura un giudizio. La volontà è un “tendere giudicando” (espressione di Giovanni Paolo II).

N. B. Va tenuto presente che volontario si chiama sia l’atto umano nel suo complesso, sia quelle fasi di esso che spettano direttamente alla volontà anziché all’intelligenza.

Studiando l’agire volontario, Aristotele e S. Tommaso hanno evidenziato che:
-esso è sempre intenzionale: ciò vuol dire che ha sempre un oggetto esterno. L’oggetto intenzionale dell’azione può anche non coincidere del tutto con il termine fisico dell’azione.
-ogni atto della volontà, oltre che intenzionale, è anche autoreferenziale, cioè include una decisione su se stessi. La persona viene coinvolta in ogni atto della volontà. Non è così, invece, per un atto solo conoscitivo. Il possesso intenzionale volitivo, cioè, non è mai neutro.

N. B. E’ importante non confondere l’aggettivo intenzionale con il sostantivo intenzione: l’intenzione, come vedremo è solo uno degli atti intenzionali dell’uomo.
Ogni atto volontario quindi ha un oggetto, che è, come per ogni facoltà umana, il principio di attuazione della volontà. Nel caso della volontà, tale principio di attuazione è il bene: ogni realtà nella quale l’intelligenza scorge una concretizzazione del bene, può divenire oggetto della volontà. Ogni atto della volontà si dirige verso un oggetto presentatole dall’intelligenza (il cui movimento quindi la precede sempre). Qui, per ora, prendiamo la nozione di bene nella sua accezione di realtà relativa al desiderio umano, più avanti si tratterà di stabilire se esiste un criterio per valutare la rettitudine dei desideri dell’uomo. 

Mettendo a fuoco con più precisione la struttura dell’agire dell’uomo, occorre evidenziare quell’aspetto caratteristico che gli antichi esprimevano con l’assioma secondo il quale “ciò che è primo nell’intenzione è l’ultimo nell’esecuzione”, cioè il fatto che ogni azione umana, se ben osservata, si rivela essere la scelta di qualcosa di immediato in vista di un fine da realizzare più avanti. Infatti, la struttura di ogni azione volontaria è rappresentabile secondo questo schema di base (gli atti dispari sono immediatamente dell’intelligenza, quelli pari della volontà):

A) Livello della ricerca del fine: 1) Conoscenza del fine   2) Desiderio del fine   3) Valutazione sull’opportunità di tentare di raggiungerlo  4) Formulazione dell’intenzione

B) Livello della scelta dei mezzi: 5) Rassegna dei mezzi possibili  6) Adesione generica a tali mezzi 7) Determinazione del mezzo più idoneo (ultimo giudizio pratico)  8) Scelta operativa di metterlo in pratica

C) Livello dell’esecuzione (atti imperati da intelligenza e volontà sulle facoltà operative)

Questa constatazione apre a due ordini di considerazioni: il primo è costituito dalla questione riguardante l’esistenza o meno di un fine ultimo, ovvero la risposta alla domanda: esiste un orizzonte ampio, nel quale necessariamente ogni libertà umana è collocata, tale che ogni scelta pratica è sempre il tentativo di concretizzarlo qui e ora per me?  Il secondo si può formulare così: il fatto che l’agire umano possieda questo caratteristico procedere “dal lontano verso il vicino” evidenzia già un’esigenza di moralità interna?



L’esistenza del fine ultimo

La filosofia classica riconosce che quel meccanismo di passaggio da una scelta concreta adesso a un fine da raggiungere dopo (sul piano reale, mentre su quello mentale avviene il contrario), il quale fine, una volta raggiunto, diviene mezzo per un fine ulteriore, ecc., è messo e mantenuto in moto da un obiettivo finale generalissimo che ogni uomo si propone necessariamente, e che concreta poi liberamente (es.: io studio oggi, perché ho intenzione di fare un esame, perché ho intenzione di laurearmi, perché ho intenzione di fare quel lavoro, perché penso che contribuirà alla mia realizzazione, perché…). Si giunge cioè necessariamente a porsi la domanda: esiste un fine ultimo, generalissimo, del quale tutti gli altri sono tentativi di concretizzazione? Dal punto di vista della teoria dell’azione umana, si coglie che esso deve esistere, e che non è un bene concreto che noi ci proponiamo, ma un termine che necessariamente fa da sfondo a ogni nostro atto, al quale ogni nostro atto offre un contenuto concreto. S. Tommaso lo chiama in vari modi: bonum in commune, finis ultimus, beatitudo, rationem appetibilitatis absolute… Senza ammettere questa realtà diverrebbe impossibile spiegare il muoversi dell’agire umano.


Il meccanismo logico per cogliere ciò è simile a quello che si attua per dimostrare l’esistenza di Dio nelle cinque vie di S. Tommaso. Infatti, se la volontà umana fosse indifferente nei confronti degli oggetti che ha davanti a sé, non si potrebbe spiegare come mai il soggetto si decide ad agire, se non “a caso”, mentre un originario interesse per un bene molto generale, la vita buona, è il presupposto perché il soggetto trovi una ragione per agire. Tale interesse o desiderio non è quindi una scelta, ma il presupposto che rende possibile qualsiasi scelta. La vita buona, felice, riuscita, non è una delle tante cose che l’uomo vuole, ma la ragione per la quale vuole tutto ciò che vuole. Tra l’altro, se non ci fosse una motivazione di fondo unica, non avrebbe senso parlare del governo della propria vita, perché l’esistenza sarebbe spezzata in segmenti sconnessi: ogni azione sarebbe isolata dalle altre, e l’uomo non potrebbe sperimentare un senso per la propria vita.



Esigenze di moralità interne all’agire umano


Il secondo ordine di considerazioni va alla ricerca del punto (o dei punti) in cui emerge l’esigenza della valutazione morale dell’agire, e li individua nell’intenzione (è in base soprattutto ad essa che si può definire buono o cattivo un uomo), e nella scelta (o intenzione realizzata), la quale aggiunge elementi di moralità all’intenzione solo progettata (in base a essa l’azione va definita buona o cattiva). Di qui il fatto che nella Veritatis Splendor, al n. 67, si condanni la teoria dell’opzione fondamentale, che ammette una troppo ampia divaricazione tra intenzione e scelta. Normalmente, viceversa, la scelta fatta è indicativa della reale intenzione.

Come si vede, gli atti decisivi per la moralità sono di tipo interno. Tuttavia, gli atti esterni che ne conseguono possono aggiungere altri aspetti caratteristici, alcuni di notevole interesse morale: la possibilità di effetti indiretti, la possibilità di finalizzazioni intenzionali diverse da quelle strutturali, la cooperazione con altre persone, l’esemplarità.

Ci si può rendere conto del fatto che attraverso il proprio agire volontario l’uomo modella se stesso e, nella misura in cui il suo comportamento è diretto dalla ragione, va instaurando dentro di sé il governo della ragione: questo è il bene immanente che costituisce il fine prossimo dell’agire umano. S. Agostino chiama tale bene ordo amoris, e S. Tommaso bonum rationis.

N. B. Affermare la necessità del governo della ragione non vuol dire che occorre che il principio unico di ogni azione si trovi nella ragione, bensì che ogni altro tipo di motivazione –per es. quella dei sentimenti- è bene che passi anche attraverso la ragione.

Aristotele fa notare che l’uomo virtuoso e quello vizioso ragionano, in materia etica, secondo un sillogismo perfetto: voglio essere temperante – bere ora questo bicchiere di vino sarebbe intemperanza – quindi non lo prendo (poniamo che il soggetto debba poi fare un lungo viaggio guidando). Oppure: tutto ciò che fa piacere non va mai rifiutato – questo bicchiere di vino mi fa piacere – quindi lo bevo.

Viceversa, l’uomo che si trova a un livello di virtù intermedio, pur avendo la premessa maggiore del virtuoso, alterna ora l’una ora l’altra premessa minore, e quindi trae ora l’una ora l’altra conclusione.





L’instaurazione e il ruolo delle virtù

Quanto sopra si può anche dire affermando che il fine prossimo dell’agire umano è l’instaurazione nella persona delle virtù, ciascuna delle quali corrisponde all’instaurazione del governo della ragione in una “regione” della persona umana. Le virtù, quindi, sono:
-mezzi che fanno l’uomo più buono
-a propria volta beni, o fini intermedi, dell’agire umano, la considerazione dei quali ci avvicina alla scoperta di precisi criteri di moralità (è buono quel comportamento che mi fa essere o diventare virtuoso).

Esse sono abiti operativi buoni, cioè qualità stabili che predispongono l’uomo ad agire bene. Stanno, per così dire, in mezzo tra una facoltà e la sua azione, e favoriscono il fatto che l’azione sia conforme al bene della persona. Dove c’è razionalità (e quindi universalità ovvero apertura a più di una possibilità) c’è “spazio” per la virtù. Le facoltà sensibili dell’uomo possono essere perfezionate dalla virtù, nella misura in cui partecipano alla razionalità.

Ricordando che ogni azione si struttura secondo il livello dell’intenzione e quello della scelta (oltre a quello dell’esecuzione), si può comprendere che ogni virtù possiede:
-un aspetto intenzionale, che orienta l’intenzione del soggetto verso fini adeguati e opportuni
-un aspetto elettivo, che perfeziona la scelta concreta, facilitando il fatto che sia coerente con l’intenzione.
Per esempio, un uomo ama la giustizia, cioè vede come un bene per sé essere giusto, e se lo propone; poi, riesce a scoprire cosa vuol dire essere giusto in una certa situazione, e a farlo.

Data questa struttura, si può capire come le virtù cardinali sono tutte relazionate tra loro, e che lo snodo di tale relazione è costituito dalla virtù della prudenza. Infatti, la dimensione intenzionale di giustizia, fortezza e temperanza (cioè, i buoni desideri) segnala alla dimensione intenzionale della prudenza i fini che si deve proporre (la prudenza punta a realizzare quei desideri). La dimensione intenzionale della prudenza si prolunga nella dimensione elettiva della stessa prudenza, che quindi suggerisce una scelta concreta e la propone alla dimensione elettiva di giustizia, fortezza e temperanza, le quali si adeguano con facilità a questa indicazione. Questa giusta misura indicata dalla prudenza è il “giusto mezzo” in cui consiste la virtù. Il giusto mezzo è la misura indicata dalla ragione, che non è per forza la media matematica tra gli estremi, né una misura astratta, ma una misura in rapporto al soggetto.

Il meccanismo sopra descritto rende ragione di un fatto di esperienza, e cioè che non si può dare una virtù in stato perfetto, se non ci sono anche tutte le altre almeno in un certo grado, e che d’altra parte la crescita in una virtù comporta almeno una certa crescita delle altre. Inoltre, esso consente di superare due posizioni entrambe non accettabili:
-quella che riduce ogni virtù a prudenza, per cui sostiene che basta sapere cosa è bene per farlo, e che il peccatore è un ignorante (è l’intellettualismo etico di Socrate)
-quella secondo la quale le virtù sono pura volontà: basta che io voglia fare il bene e con ciò già  riesco a capire quale è e a farlo.

Con quanto sopra, ci siamo avvicinati alla comprensione della moralità dell’agire umano, tuttavia rimane da indagare un aspetto decisivo, ovvero quello cioè del criterio di valutazione della bontà dei fini che l’uomo di propone.

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